Intervista a Frank Merenda di Moreno Bonechi
Moreno Bonechi (MB):
Frank, grazie di essere qui. Come è noto, Starbucks si sta trovando a livello globale in un momento decisamente complicato, con vendite in calo, clienti insoddisfatti e criticità su più fronti. A tuo avviso, cos’è cambiato in questa catena che un tempo era sinonimo di caffè “premium” e atmosfera accogliente?
Frank Merenda (FM):
Moreno, la situazione si spiega in modo piuttosto diretto. Starbucks si è sempre proposta come “l’oasi del caffè”, il famoso “terzo luogo” tra casa e lavoro dove potevi rilassarti, socializzare, magari restare seduto per ore a leggere, studiare o lavorare. Hanno creato un modello rivoluzionario per il mercato americano, ispirandosi a una certa idea — un po’ idealizzata — di caffetteria europea.
Il problema è che, nel tempo, hanno smontato pezzo dopo pezzo gli elementi chiave di quell’esperienza: meno sedute confortevoli, ambienti sempre più asettici, un menu che si è gonfiato di varianti discutibili e, soprattutto, una focalizzazione sul servizio da asporto o drive-thru che ha snaturato il concetto originario.
Oggi, se entri in molti negozi, non trovi più quell’atmosfera rilassata. In compenso, trovi file interminabili, personale sotto stress e prezzi che non fanno più rima con “esperienza di qualità”. Il risultato? Le persone si domandano: perché devo spendere di più se mi offrono un servizio peggiore e un ambiente che non mi invoglia a fermarmi?
MB:
Prima di approfondire la questione dei prezzi, vorrei capire meglio come si è arrivati al “taglio” delle sedute confortevoli e al virare verso il drive-thru. C’entra la pandemia o c’è altro?
FM:
La pandemia ha agito da detonatore di una tendenza già in atto. Durante i lockdown, Starbucks non poteva più contare sulla gente che si sedeva per un’ora a sorseggiare un cappuccino. Era costretta a puntare sulle consegne e sull’asporto. Questa scelta è stata comprensibile in quel momento, ma ha preso piede a tal punto che il “nuovo” modello si è cristallizzato.
I vertici, vedendo che il 70% e più delle vendite arrivava dal canale drive-thru o dagli ordini via app, hanno deciso di lasciare più spazio all’afflusso di gente “mordi e fuggi” e meno a chi voleva sedersi.
È un approccio che potrei anche capire se fosse in linea con un posizionamento di caffè veloce a basso costo. Ma Starbucks non è mai stata una catena “cheap”. È nata come locale che ti faceva pagare di più per un’esperienza superiore. Se tagli quell’esperienza e lasci i prezzi alti, puoi immaginare il disastro.
MB:
A proposito di prezzi, in molti si lamentano delle cifre esorbitanti per un latte o un cappuccino. Eppure Starbucks è nata vendendo caffè carissimo, no?
FM:
Assolutamente sì. Ma all’inizio ti davano un “pacchetto” completo: wifi quando non era così diffuso, poltrone morbide, una certa atmosfera musicale e la possibilità di stare lì quanto volevi. Starbucks si proponeva come il “terzo spazio” e giustificava il suo premium price con un valore percepito più alto.
Col tempo, la situazione è degenerata: in alcuni casi il prezzo di un latte è cresciuto in modo sproporzionato. Nel frattempo, la clientela è passata dall’entrare per godersi la permanenza all’afferrare in fretta un bicchiere di plastica e uscire, o restare in fila per venti minuti solo per sentirsi dire: “Eccoti il tuo ordine, prossimo!”.
A quel punto i consumatori fanno un rapido confronto mentale. Pensano: “Ma se devo solo prendere e andare, mi conviene spendere tutti questi soldi qui o mi fermo al bar di fronte, pago la metà, e magari trovo pure un sorriso sincero?”.
Questo è il tipico corto circuito che si crea quando dimentichi che, se vuoi essere premium, devi garantire il corrispettivo in termini di qualità, di esperienza, di ambiente, di servizio. Se vuoi essere veloce ed economico, devi allineare i prezzi. Non puoi essere caro e spoglio allo stesso tempo.
MB:
Il menu, poi, si è dilatato parecchio. Hai bevande di ogni tipo, combinazioni improponibili, sciroppi, personalizzazioni. Non suona un po’ in contraddizione con l’idea di fare bene poche cose?
FM:
È proprio qui che entrano in gioco i grandi classici del marketing: quando un’azienda inizia a perdere chiarezza di posizionamento, si avventura in mille direzioni, sperando di abbracciare un pubblico più vasto. Risultato: si crea confusione.
E più il menu si allunga, più la parte operativa diventa un incubo. I baristi devono gestire ordini sempre più elaborati, riducendo la velocità media di servizio, peggiorando la qualità, aumentando lo stress.
C’è gente che ordina una bevanda in cui aggiunge dieci o quindici varianti di sciroppi, panna, tipo di latte, quantità di ghiaccio, e chi più ne ha più ne metta. Chi arriva dopo di loro in coda resta lì ad aspettare, magari per un banale espresso.
Ora, se sei un bar che punta sulla personalizzazione estrema ed è attrezzato con un team abbondante, può funzionare.
Ma Starbucks ha sempre avuto un ricambio di dipendenti frenetico, e la pandemia ha peggiorato le cose. Meno personale, più ordini complicati, prezzi alti. E l’esperienza “gourmet” finisce schiacciata dal caos.
MB:
Ti sei riferito al personale di Starbucks come sovraccarico. Hai qualche esempio concreto?
FM:
Certamente. Ho sentito testimonianze di ex baristi che si lamentavano di dover coprire più ruoli contemporaneamente, perché i turni non erano mai abbastanza coperti. Preparare i caffè, gestire la cassa, fare le pulizie, controllare gli ordini via app che fioccano di continuo, mentre nel frattempo c’è anche la fila fisica in negozio.
Alla lunga, è evidente che la qualità del servizio soffre. E quando cerchi di far tutto di corsa, non hai più tempo di essere quel barista sorridente che scambia due battute col cliente.
In più, la catena era famosa per scrivere il nome del cliente sul bicchiere in modo simpatico, a volte storto, a volte sbagliato, ma era una piccola firma di “umanità”. Oggi spesso non c’è nemmeno quello, solo uno stampino automatico. Tutto più freddo, sterile, molto meno speciale.
MB:
Quindi abbiamo un ambiente meno accogliente, un servizio più lento e asettico, e prezzi in continua salita. Si spiega abbastanza bene la fuga dei clienti. Ma perché dici che Starbucks è andata a scontrarsi contro un muro di concorrenza imprevista?
FM:
Perché nel momento in cui Starbucks ha insegnato agli americani (e non solo) che bere un caffè potesse essere un’esperienza “lenta” e piacevole, ha anche creato le premesse per la nascita e la diffusione di caffetterie indipendenti che hanno preso quell’idea e l’hanno realizzata in modo più artigianale, spesso con un tocco più personale e prezzi competitivi.
Molti clienti, dopo aver scoperto quanto sia piacevole trascorrere del tempo in una caffetteria di quartiere, passano sempre più volentieri ai locali indipendenti, dove magari il barista li conosce per nome, il design è curato in modo unico, e il prodotto può essere di qualità più alta, senza costare per forza di più.
Starbucks, intanto, ha perso un po’ la sua identità e si è trovata in un limbo: né abbastanza premium né sufficientemente economico.
MB:
Interessante. È come se Starbucks avesse creato il mercato che poi l’ha messa in crisi. Ma non è solo negli Stati Uniti che si vedono i problemi, giusto?
FM:
Assolutamente. In diversi mercati internazionali, Starbucks ha dovuto inchinarsi a culture del caffè già radicate. Mi vengono in mente quei paesi dove il rito del caffè è fortissimo, come l’Italia, l’Australia, la Grecia.
In Australia, per esempio, i consumatori hanno un’abitudine consolidata di caffè di alta qualità, molto legata al fatto che ci sono state grandi ondate di immigrati italiani e greci nel corso del Novecento. Hanno portato con sé un modo di intendere il caffè come momento di socializzazione, servizio al tavolo, un certo stile artigianale.
Starbucks non ha mai attecchito in maniera significativa lì, e ha dovuto chiudere la maggior parte dei negozi aperti.
In Italia, poi, la sfida è immensa, perché l’espresso al bancone a un euro fa parte della quotidianità. Proporre un beverone a prezzo quadruplo o quintuplo può funzionare solo in contesti molto turistici o per chi cerca un’alternativa “esotica”.
Ma non per la massa, che vuole la tipica ritualità del caffè veloce, magari lo scambio di battute con il barista di fiducia, la familiarità del locale sotto casa.
MB:
E in Asia, invece, come si spiega la batosta ricevuta in Cina?
FM:
Lì c’è una dinamica ancora diversa. Starbucks sperava di entrare in un mercato sterminato, con un crescente gusto per il caffè. In parte c’è riuscita, ma si è scontrata con concorrenti locali più aggressivi e a basso costo come.
Il caso simbolo è la catena cinese Luckin Coffee che ha aperto migliaia di punti vendita in pochissimo tempo, puntando a un pubblico giovane e urbano, disposto a spendere, ma non così tanto come vorrebbe Starbucks.
Inoltre, i cinesi hanno un modello di consumo e abitudini differenti, e un competitor locale che capisce meglio le tendenze del mercato può agire più velocemente.
In sostanza, Starbucks non è riuscita a imporre il suo brand come qualcosa di aspirazionale e intoccabile, perché i concorrenti sono stati bravi a offrire un caffè “carino” e instagrammabile, ma meno caro. La catena occidentale, di nuovo, è rimasta in una terra di mezzo: né sfarzo sufficiente per giustificare il prezzo, né convenienza che possa strappare clienti a una concorrenza locale spietata.
MB:
Parliamo anche di un problema interno all’azienda, quello relativo al personale e ai sindacati. Starbucks era considerata un’azienda modello dal punto di vista di benefit, stock option e quant’altro, ma ho letto che ultimamente ci sono state tensioni forti.
FM:
Sì, è vero. È sempre stata un’azienda con un’immagine positiva: offriva benefici come l’assicurazione sanitaria anche ai part-time, borse di studio, ecc. Il problema è che, con l’aumento del costo della vita, i ritmi frenetici, il carico di lavoro, molti dipendenti si sono sentiti poco ascoltati e sottopagati.
Sono nati movimenti sindacali interni, e la reazione del top management, in particolare di una figura storica al vertice, è stata piuttosto dura.
Da quel momento l’immagine progressista di Starbucks ha cominciato a scricchiolare. Quando l’azienda che si professa “amica dei dipendenti” e portatrice di valori liberal si mette di traverso nei confronti di chi cerca di sindacalizzarsi, si crea uno strappo.
E i clienti di certe aree sensibili a questi temi (pensa a molte zone urbane negli Stati Uniti) non hanno gradito. Oltretutto si sono viste proteste, scioperi e una copertura mediatica sfavorevole. Tutto questo non aiuta a ricucire il rapporto con la propria base di clienti, che in teoria dovrebbe identificarsi in un brand “buono e inclusivo”.
MB:
Cambiando argomento, so che ultimamente è arrivato un nuovo CEO con un curriculum importante. Pensi che riuscirà a ribaltare la situazione?
FM:
Il nuovo leadership team sicuramente ha intuito che serve una sterzata. Hanno annunciato di voler tornare al modello della “caffetteria di quartiere”, di ricostruire un ambiente dove stare seduti e riappropriarsi di quella dimensione più umana.
Il problema è che non basta dirlo: bisogna farlo. E farlo su migliaia di punti vendita sparsi nel mondo richiede investimenti, tempo, cambiamenti di layout, formazione del personale, nuove politiche retributive.
Non è che in un mese sposti tutte le sedie e risolvi. Se per anni hai spinto il drive-thru, magari hai progettato negozi con parcheggi ampi, spazi interni ridotti, zone sosta minime. Non è una transizione che si risolve con un colpo di bacchetta magica.
Certo, Starbucks resta un colosso con un’enorme riconoscibilità del marchio e un presidio capillare in moltissime aree. Quindi, se fanno la mossa giusta e correggono il tiro, possono tornare a essere competitivi.
Ma devono decidere se vogliono davvero riprendersi quel posizionamento premium — e in tal caso allinearsi di conseguenza — o se preferiscono diventare una sorta di fast coffee con prezzi più bassi e meno fronzoli.
MB:
Mi sembra di capire che ci sia un problema di fondo: la mancanza di coerenza tra prezzo, prodotto e servizio. Mi ricorda alcune regole “sempre valide” del marketing, di cui tu parli spesso. Voglio chiederti: perché le aziende, anche le più grandi, non riescono a seguire certi principi che sembrano così semplici sulla carta?
FM:
Te lo dico con un pizzico di ironia: perché a volte i manager si dimenticano che le leggi del mercato e quelle del posizionamento non sono opinabili. O meglio, si illudono di poter essere un po’ di tutto per tutti, e di restare al tempo stesso un marchio “figo” e costoso. Quante volte Al Ries ci ha messo in guardia su questi concetti? Sempre troppo poche mi sembra di capire.
Quando un’impresa è in fase di grande espansione, si sente invincibile e aggiunge prodotti, servizi, linee, aperture su aperture. Sul momento, può sembrare vincente. Poi, però, ti ritrovi con un brand che non è più focalizzato, con una rete di negozi sovradimensionata e una complessità interna che ti sfugge di mano.
Sai, è come se avessero voluto prendere i principi del posizionamento, che Al Ries aveva spiegato decenni fa dicendo “concentrati su ciò che fai meglio e rispondi a un’esigenza precisa del mercato”, e avessero pensato:
“Ma noi siamo Starbucks, siamo grandissimi, possiamo fare eccezione.”
La realtà è che quelle regole valgono sempre, anche se sei un’azienda globale. Se diluisci il tuo valore differenziante, prima o poi ne paghi il prezzo.
MB:
Vorrei agganciarmi a un altro esempio. McDonald’s, in passato, si è messa a fare caffè gourmet, insalate, hamburger “premium”, col risultato di confondere la clientela. Credi che Starbucks stia inciampando nello stesso tranello?
FM:
Esattamente. McDonald’s è un simbolo dell’idea “serviamo qualcosa a chiunque entri”, ma così facendo, ha moltiplicato il menu e rallentato il servizio, minando la percezione del classico fast food economico e veloce.
Poi hanno cercato di correggere questa rotta, tornando a semplificare, ma non è stato indolore né fatto alla perfezione. Ne stanno ancora pagando il prezzo rispetto a catene molto più profittevoli come In-N-Out, Chick Fil-A, Shake Shack ecc…
Starbucks ha fatto lo stesso errore: voleva accontentare tutti, quelli che vogliono un caffè veloce, quelli che vogliono sedersi, i clienti fanatici delle bevande stravaganti, i fan delle novità in edizione limitata. Ma il brand paga la confusione.
Un’azienda sana ha una spina dorsale di valori e di prodotti cardine che restano riconoscibili nel tempo. E se vuoi sperimentare, lo fai, ma mantieni una chiarezza di fondo.
Se invece rivoluzioni l’identità di base, da “caffetteria di lusso” a “take-away continuo”, i consumatori che ti amavano per la prima ragione si sentono traditi. E quelli che vogliono un take-away veloce vanno da chi lo fa meglio, a un prezzo minore.
MB:
Vorrei spostarmi sul panorama italiano, dove Starbucks è arrivata da poco e si pone come una novità. Qual è la tua visione su come verrà accolto, al di là dell’effetto curiosità iniziale?
FM:
In Italia c’è una cultura del caffè molto radicata e decisamente diversa. L’italiano medio prende l’espresso al volo al bancone, paga un euro o poco più, e spesso ha una relazione quasi confidenziale col barista di fiducia.
Starbucks, con i suoi grandi bicchieroni e i prezzi elevati, può diventare una meta turistica o una “coccola” saltuaria per chi vuole provare un gusto di ispirazione americana. Però difficilmente diventerà una tappa fissa come negli Stati Uniti, dove la gente ci fa colazione, ci lavora al laptop, incontra gli amici.
Inoltre, qui da noi c’è una forte abitudine a sostenere il piccolo bar sotto casa, il locale di quartiere, anche per motivi culturali e di relazione sociale.
Abbiamo una mentalità che favorisce la familiarità e le reti di conoscenza: se il barista ti conosce, ti saluta e ti chiede come stai, scatta quell’effetto di lealtà informale che le grandi catene fanno fatica a ricreare in modo sincero.
Almeno nella provincia, poi è chiaro che nel centro dei grandi agglomerati urbani sia diverso.
Certo, Starbucks ha un brand potente e può attirare i turisti che, venendo in Italia, curiosamente finiscono da Starbucks invece che nel bar storico. Ma sul consumatore italiano abituale non prevedo un impatto enorme, se non in alcune città dove c’è un alto flusso internazionale.
A meno che, come ho già detto, Starbuck non riesca a portare in Italia quello spirito che la caratterizzava agli inizi. Di luogo comodo, accogliente, veloce nel servizio ma “coccola” per te come cliente. Questo potrebbe spostare i clienti abituati al bar freddo e impersonale e troppo veloce e caotico verso un punto Starbucks di livello.
Il problema in sè non è nè veramente il prezzo nè il format. Tutto può funzionare anche in Italia se fatto bene. Ma se già devi combattere la battaglia di spostare la gente culturalmente dal bar al tuo Starbucks, almeno devi degnarti di dare una esperienza top. Cosa che Starbucks nel mondo non sta facendo.
C’è da dire che Starbucks in Italia è in mano alla famiglia Percassi che è uno dei miei rifermenti in ambito business e non credo di avere nulla da insegnargli, anzi solo da imparare. Quindi sono più che certo che le mie considerazioni siano a loro già note e condivise.
MB:
E vedi possibili strategie di adattamento locale?
FM:
Sì, probabilmente i Percassi proporranno linee più “italianizzate”, magari un espresso “ridotto” a un prezzo più “italiano”, o dessert ispirati alla pasticceria locale. Su certe cose si stanno già muovendo. Il problema è che se esagerano in questa direzione rischiano di snaturare ancora di più il brand.
Se inizi a vendere il caffè a un euro e trenta in tazzina e riduci i margini, rinunci a quella dimensione premium. E se lo tieni a prezzo alto, non lo vendi ai consumatori italiani abituati a un espresso di ottima qualità (tipo Illy) al costo standard. A meno che tu non punti davvero tutto sull’esperienza originale che aveva Starbucks quando nacque in USA.
Quindi Starbucks in Italia, a mio parere, può rischiare di rimanere un fenomeno di nicchia, con poche sedi in punti strategici e con una clientela di passaggio, magari più interessata al frappuccino zuccherato o alle bevande stagionali che vanno su Instagram. Per evitare questa “fine” serve un piano marketing davvero ben congegnato.
MB:
C’è chi però dice:
“Sì, ma Starbucks è talmente forte a livello globale che può permettersi di aprire store in ogni angolo, facendo leva sullo status simbolico del marchio.”
Funzionerà questa strategia?
FM:
Il brand è forte, su questo non c’è dubbio. Ma l’onnipresenza non paga più se si traduce in una dispersione di identità. Negli Stati Uniti, puoi aprire un locale ogni cento metri e comunque la gente, finché credeva nel fascino del brand, ci andava.
Ma ora, molti consumatori si sono stancati, si sentono un numero, e non trovano più quella “familiarità globale” che li aveva sedotti. Se Starbucks apre in Italia senza proporre davvero nulla di unico se non il logo, potrebbe appiattirsi in fretta.
Inoltre, nel nostro Paese, c’è la questione delle piccole imprese gestite in modo molto personale. Non citiamo teorie antropologiche, ma sappiamo che qui chi conosce le persone giuste, il quartiere giusto, trova maggiore accoglienza.
Le catene non sempre sfondano, a meno che non riescano a dare vantaggi davvero significativi. E Starbucks, con i prezzi più alti, rischia di non dare un vantaggio all’italiano che si muove in auto o gira a piedi con abitudini consolidate.
MB:
In altri termini, manca quel fattore di “valore aggiunto” che negli Stati Uniti era la wifi e l’atmosfera lounge?
FM:
Esatto. È cambiato il mercato anche in America, figurati in Italia dove l’idea di stare con un computer portatile in un bar per ore non è radicata come negli USA. Certo, ci sono studenti e freelance che lo fanno, ma spesso preferiscono localini più caratteristici e magari più economici.
Starbucks, se non offre più quell’ambiente confortevole con divanetti e musica di sottofondo (che non vedo in molti store recenti), con che arma differenziante entra nella giungla dei bar italiani?
MB:
Mi sembra di capire, quindi, che la vicenda di Starbucks insegna come si possa perdere la direzione per eccesso di espansione e di ibridazioni. Eppure parliamo di un colosso che, sulla carta, avrebbe risorse infinite.
FM:
Le risorse da sole non bastano. Se vai fuori rotta, puoi anche metterci tanti soldi, ma rischi di spenderli male. Quando un’azienda comincia a scivolare nel caos operativo, con
un servizio lento,
code infinite,
menù complicati e
lavoratori in agitazione,
i soldi servono solo a tamponare, non a risolvere l’origine del problema.
Quello che serve è tornare a una visione chiara: chi vogliamo essere, a quale cliente ci rivolgiamo, cosa offriamo di unico e di qualità.
Ora, se rispondono:
“Vogliamo essere la caffetteria raffinata dove ti fermi
e paghi di più per un’esperienza top”
devono ridisegnare gli spazi, assumere abbastanza personale per garantire il servizio col sorriso, e ridurre un po’ l’eccesso di personalizzazioni.
Se invece dicono:
“Vogliamo diventare il fast coffee di massa,
competendo con le caffetterie low cost”
allora devono abbassare i prezzi ed efficientare il servizio (non mi sembra una grande idea ma è una possibilità).
Quello che non possono fare è rimanere nel limbo e pensare che la brand equity accumulata in passato basti per sempre.
MB:
Questo discorso mi fa ricordare i momenti in cui hai detto, in più occasioni, che la gente sottovaluta i princìpi fondamentali del marketing e poi si sorprende quando un brand glorificato viene ridimensionato. Ecco, potremmo anche dire che Starbucks rappresenta l’esempio tangibile del “ve l’avevo detto”.
FM:
È brutto a dirsi, ma sì. Quando Al Ries e Jack Trout spiegavano che il posizionamento si basa sulla coerenza e sulla focalizzazione, non lo dicevano per passatempo.
Molte aziende, per qualche anno, sembrano immuni a queste leggi, perché stanno crescendo e i fatturati aumentano. Ma prima o poi la realtà presenta il conto. E allora ci si trova di fronte a un bivio: o si cambia davvero e ci si rimette in carreggiata, oppure si cerca di resistere, magari imputando la colpa a fattori esterni, come la pandemia, la crisi globale, i nuovi stili di consumo. Tutte scuse che non risolvono il tema di fondo.
Starbucks non è la prima né sarà l’ultima. Il bello è che, se guardiamo indietro, vediamo case analoghi: grandi colossi che a un certo punto si sono sclerotizzati, o hanno perso la bussola, o hanno preteso di poter essere tutto per tutti.
Ciò che appare “sempre vero” finisce per essere ignorato dai manager di turno, convinti di poter sfuggire alla regola. Ma no, la regola è sempre lì a ricordarci che la chiarezza di brand e la distinzione netta sul mercato sono i pilastri di una crescita duratura.
MB:
Quindi, da esperto in strategie e vendite, che consigli daresti ai vertici di Starbucks se potessi parlare direttamente con loro?
FM:
Direi:
“Amici, o vi riprendete la corona di ‘terzo luogo’ e, quindi, investite seriamente nell’ambiente, nella formazione del personale, in uno stile di servizio caldo e coinvolgente, riducendo l’eccesso di confusione nei menù e la spinta asfissiante sul drive-thru; oppure se volete sbragare il brand perché non ci credete più scendete di prezzo e diventate un competitor fast, garantendo rapidità ed efficienza al bancone o in auto, senza più parlare di poltrone e soggiorni rilassanti.
Ma decidete in fretta.”
La soluzione “cerco di essere premium e veloce, accogliente ma minimalista, a prezzi alti ma in un ambiente tipo fast food” non funziona.
Già ora vediamo la fuga di clienti che si sentono traditi, e la competizione non è certo ferma ad aspettare. Perdere clienti nel mercato del caffè, che è altamente concorrenziale, significa buttare milioni di dollari di investimenti in location, brand e pubblicità. Meglio scegliere con coraggio una strada e svilupparla fino in fondo.
MB:
Come vedi le tempistiche di un eventuale ritorno alla “grande Starbucks” del passato?
FM:
Se decidessero di abbracciare una strategia di riconversione degli spazi — tornando a mettere divanetti, musica avvolgente, magari semplificando il menu, ri-valorizzando il rapporto umano con il cliente — servirebbe un piano pluriennale.
Dovrebbero fare ristrutturazioni, rivedere i contratti di locazione, migliorare i processi di assunzione e formazione per avere abbastanza personale in grado di gestire con un sorriso l’affluenza, e contemporaneamente ridare centralità a quell’aura “accogliente” che avevano creato in passato.
Non è un’impresa da poco, ma non è impossibile. Hanno un marchio famoso in ogni angolo del pianeta, quindi se tornano a far sognare la gente con un caffè “speciale” e un ambiente dove ti senti a casa, possono riacquistare leadership.
Se invece cercano meccaniche più ibride di comodo, temo che vedremo Starbucks arrancare nel tempo, tirando avanti sulla base dell’inerzia e di alcuni mercati più tradizionali, ma senza più quell’alone di grandezza.
MB:
Ora che mi ci fai pensare, ho notato la spaccatura anche tra i fan della prima ora di Starbucks. Alcuni dicevano: “Io ci passavo i pomeriggi a studiare”, altri: “No, io preferisco prendere un caffè e scappare.” Come si risolve questa tensione?
FM:
Offrendo un’idea chiara di cosa vuoi essere. Se vuoi essere la caffetteria dove la gente può passare il pomeriggio a studiare, devi creare uno spazio adatto e reggere l’onda di persone che restano lì a lungo, magari consumando un caffè ogni due ore.
Allo stesso tempo, devi gestire la folla di chi vuole solo un espresso o un latte da asporto. Puoi provare a separare i flussi, ad esempio con due zone distinte: una per il pick-up veloce e una con tavolini e divani. Ma devi farlo con attenzione, e capisci che non è certo gratis.
Se poi dici: “Il mio core business è vendere caffè in volume e margine senza far stazionare la gente”, allora ti focalizzi su spazi piccoli, parcheggi ampi e un personale addestrato a lavorare in catena di montaggio.
Ma poi il prezzo deve rispecchiare questa impostazione, altrimenti la gente si sente presa in giro. Starbucks si trova esattamente al centro di questa frattura. Quello che Al Ries chiamava la trappola del “Mushy Middle” (le sabbie mobili di chi si trova nel mezzo). E se non risolve, rischia di perdere entrambi i tipi di clienti.
MB:
Mi viene da sorridere perché sembra così ovvio, eppure la situazione lì fuori dimostra che c’è stato un cortocircuito. Ti chiedo, in conclusione, un pensiero generale su come questa crisi di Starbucks possa servire da monito ad altri imprenditori o manager.
FM:
Chiunque gestisca un business dovrebbe guardare a questo caso e imparare un paio di lezioni.
Uno: non pensare mai che il tuo brand sia così forte da renderti immune alle regole di base del mercato, perché nessuno è al di sopra di esse.
Due: se offri un’esperienza, devi mantenerla coerente e aggiornata, non puoi svuotarla nel tempo, pena la perdita di valore percepito.
Tre: quando espandi la tua offerta e la tua presenza, fallo tenendo ben saldo il tuo posizionamento. Non puoi cercare di prendere clienti che vogliono due cose opposte, a meno di creare due linee di business distinte, ben differenziate.
Infine, ricordarsi sempre che i dipendenti sono i primi ambasciatori del brand.
Se li stressi e li sottopaghi, e in più non dimostri coerenza con i valori che proclami, l’aria fritta si sente da un miglio di distanza. Starbucks dovrà sistemare anche il rapporto con chi lavora in prima linea, perché un barista insoddisfatto non ti crea certo quell’atmosfera magica da “caffetteria dell’anima”.
Questo vale in America, in Italia e dovunque tu voglia operare. Il consumatore non è stupido: se lo tratti in modo meccanico, se gli vendi a caro prezzo qualcosa di mediocre, o se cambi le carte in tavola riguardo alla tua identità, lui se ne va. E poi magari trovi i negozi mezzi vuoti e ti lamenti del “mercato difficile”, ma la verità è che ti sei tagliato i rami da solo.
MB:
Direi che hai dipinto un quadro esaustivo. Grazie, Frank, per questa analisi. Ti confermo che in molti concordano con le tue critiche, ma volevo sentire la tua visione su come si possano davvero risolvere, e credo tu abbia dato indicazioni chiare. Speriamo che da Seattle ascoltino.
FM:
Se ascolteranno oppure no, lo vedremo. Potrebbero anche provare a insistere nella direzione attuale per qualche anno. Ma le vendite calanti e l’insoddisfazione dei clienti sono segnali inequivocabili.
Prima o poi dovranno decidere: o tornano a essere Starbucks come la gente se la ricorda, oppure diventeranno un fast coffee che perde gradualmente la fama di status symbol.
Sai, i grandi brand, quando scivolano, talvolta si rialzano e tornano ancora più forti. Ma non succede per magia: succede quando qualcuno prende in mano la situazione e dice con fermezza:
“Ok, da oggi torniamo a fare poche cose, ma le facciamo benissimo,
e smettiamo di rincorrere ogni vento di moda.”
Se Starbucks non si ridà un assetto chiaro, finisce come altri marchi che si sono gonfiati, poi sgonfiati, e infine sono rimasti nell’angolo del “Ah, te lo ricordi quando andavamo da…?”.
Magari gli statunitensi avranno nostalgia di quell’odore di caffè misto alla moquette e al jazz in sottofondo, ma, a furia di togliere i divani e di farli sentire un numero, li hanno già spinti altrove.
MB:
Grazie ancora, Frank. Penso che chiunque legga possa trarre spunti preziosi, sia per capire il fenomeno Starbucks, sia per non incappare negli stessi errori nel proprio business. È stato un piacere ospitarti.
FM:
Piacere mio. Anche perchè mi hai ospitato nel mio studio eh? A parte gli scherzi, Speriamo che questa vicenda serva come lezione: i principi base funzionano sempre, e guai a chi se ne dimentica.
Noi, con la consueta ironia, diciamo: “Al Ries ve l’aveva detto.” Ma, si sa, finché tutto va a gonfie vele, nessuno vuole sentire prediche.
Poi, quando il vento cambia, ci si ricorda di quelle regole immutabili. Starbucks ha ancora una chance: basta che torni a fare ciò che sapeva fare meglio di tutti, e lasci ai concorrenti il resto.
PS: Hai bisogno di una mano per creare o ricreare il format del tuo locale, attività, centro, negozio ecc??
sono fotografo, non ristoratore ma l'intervista è una perfetta disamina di ciò che nel mio piccolo mi è successo. Per 35 anni prima scelta nella testa degli sposi e dal covid in poi invece basta.
L'intervista mi ha acceso un pò di lampadine. Grazie
Articolo, opps, intervista, top.
Interessantissimo, lo dico da operatore del settore della ristorazione.
Esempio pratico con richiamo alla teoria.
Analisi puntuale e spietata.
Non pensavo che la situazione fosse così critica anche in usa, di sicuro in Italia tantissima fatica.
Per me uno dei migliori contenuti da quando seguo Frank. (E ne ho letti tanti)