Nel mondo del marketing tradizionale, il Direct Response Marketing – il marketing a risposta diretta – è stato considerato a lungo un figlio minore, un ripiego destinato alle piccole imprese che non potevano permettersi le pompose campagne istituzionali di brand awareness su TV nazionali, radio, quotidiani o eventi iconici (come il Super Bowl negli USA o Sanremo in Italia).
In altre parole, se avevi i milioni da spendere in pubblicità d’immagine potevi “sparare col cannone” e conquistare il mercato; se non li avevi, dovevi ripiegare su strategie direct response più misurate e “povere”.
Questa mentalità ha dominato per decenni. Il marketing a risposta diretta veniva spesso associato a telepromozioni a tarda notte, venditori porta-a-porta o agli “advertorial” un po’ kitsch – insomma, un qualcosa di poco glamour rispetto agli spot patinati in prima serata.
Si pensava che il piccolo negoziante o imprenditore dovesse arrangiarsi con mailing list, coupon e volantini mentre i grandi brand potevano permettersi di costruire marchi leggendari senza sporcarsi le mani con offerte promozionali dirette.
Come dice in modo colorito il mio mentore, il guru Dan Kennedy, la differenza tra il marketing generico da grandi aziende e il direct marketing mirato è come la differenza tra sparare con un fucile a pallettoni e sparare con un fucile di precisione: la pubblicità generale spara nel mucchio sperando di colpire qualcosa, mentre il direct response mira dritto al bersaglio per ottenere risultati precisi.
Per molto tempo i grandi hanno preferito il “fucile a pallettoni”, forti dei loro budget, e hanno guardato dall’alto in basso chi invece imbracciava il fucile di precisione del direct marketing.
Il colosso contro la bottega: l’esempio di McDonald’s vs. piccola hamburgeria
Per capire questo atteggiamento, facciamo un esempio concreto di qualche anno fa: McDonald’s vs. la piccola hamburgeria sotto casa. McDonald's per anni ha incarnato il paradigma del grande brand che non aveva (apparente) bisogno di marketing “a risposta diretta”. La sua enorme notorietà e presenza capillare bastavano a generare code fuori dai nuovi locali, senza dover ricorrere a tattiche di marketing one-to-one.
McDonald’s, con il suo brand globalmente riconosciuto, quando apriva un nuovo ristorante in una città attirava folle spontaneamente. In molti casi era il primo fast food della zona, la novità assoluta; e complice la fama del marchio, si formavano code interminabili all’inaugurazione senza bisogno di strategie sofisticate.
Inoltre McDonald’s poteva permettersi le location migliori: apriva solo in zone strategiche con altissimo traffico pedonale e automobilistico, nei centri città o addirittura acquistando terreni agli incroci più frequentati delle statali – luoghi impensabili per il ristoratore indipendente.
Insomma, con un marchio così forte e una posizione così dominante, McDonald’s non aveva bisogno di fare molto altro che continuare a martellare con pubblicità istituzionale e presenza costante sui media per mantenere il proprio dominio.
Dall’altra parte, la piccola hamburgeria artigianale a conduzione familiare che apriva in una via secondaria poteva fare affidamento solo sul passaparola locale, su qualche volantino, forse una pagina Facebook gestita in casa. Niente budget per la TV, niente affissioni in tutto il paese.
Per questi piccoli, per anni mi sono sgolato a spiegare che l’unica via di marketing efficace sarebbe stata quella diretta: raccogliere contatti dei clienti del quartiere, magari distribuire una tessera punti o un coupon per invogliare a tornare, e cercare di fidelizzare quel poco pubblico che riuscivano a raggiungere.
Il direct marketing nasce storicamente proprio per dare ai “piccoli Davide” armi con cui competere contro i “grandi Golia” sul terreno del marketing: la lista clienti, il coupon, la lettera di vendita, l’offerta misurabile che genera una risposta immediata (da cui il nome). E per anni è rimasto appannaggio quasi solo dei Davide.
La svolta inattesa: i giganti saltano sul carro del Direct Response
Oggi però assistiamo a una svolta epocale. Quello che un tempo era un segreto dei piccoli, della “setta dei Kennediani” di cui faccio orgogliosamente parte, degli eredi di Ogilvy, Claude C. Hopkins, Robert "Bob" Collier, Maxwell "Max" Sackheim, Gary Halbert e molti altri, è diventato l’asso nella manica dei grandi.
PS: Per chi non lo sapesse, con tanta umiltà ma sono l’unico italiano nella storia a far parte della più antica e autorevole membership sul direct response marketing ancora attiva pubblicata negli Stati Uniti, la Gold Crown di Dan Kennedy
I giganti si sono svegliati e, quasi in sordina, hanno iniziato ad adottare in massa le tecniche di direct response marketing – proprio quelle tecniche concepite per combatterli! Il caso emblematico è di nuovo McDonald’s.
Negli ultimi anni il mercato del fast food si è saturato: la concorrenza è spietata, sono nati nuovi format più economici o più gourmet, e perfino per un colosso come McDonald’s mantenere margini e fatturati in crescita è diventato impegnativo. La risposta? McDonald’s ha fatto un grande salto verso il direct response.
Prima mossa: ha iniziato a “fare lista”. Oggi McDonald’s spinge tutti i clienti a scaricare la sua app mobile, offrendo in cambio sconti e vantaggi immediati (quello che nel gergo del direct marketing chiamiamo un lead magnet, un’esca per ottenere il contatto).
Registrandosi all’app, ogni cliente entra nel database dell’azienda, con nome, email, magari compleanno e preferenze alimentari. Nel giro di pochi anni McDonald’s ha costruito un’enorme lista di clienti profilati: basti pensare che il programma MyMcDonald’s Rewards, lanciato a metà 2021, aveva già oltre 21 milioni di iscritti negli USA entro fine di quell’anno, ed è poi esploso globalmente fino a raggiungere 150 milioni di utenti attivi su 90 giorni a fine 2023.
La catena punta dichiaratamente a quota 250 milioni di membri attivi entro il 2027. Numeri impressionanti, persino per un colosso del genere.
Ma raccogliere contatti era solo l’inizio. La vera rivoluzione è arrivata con l’utilizzo di quei dati per fare marketing mirato: McDonald’s ha iniziato a inviare offerte personalizzate e promozioni settimanali tramite notifiche push dell’app e campagne email/SMS.
Ogni settimana offerte diverse, talvolta differenziate per singolo mercato locale, per giorno della settimana e persino per fascia oraria (in alcuni Paesi arrivano promozioni “happy hour” specifiche).
Si tratta esattamente di ciò che i marketer a risposta diretta predicano da sempre: segmentare la clientela e inviare a ciascuno un messaggio rilevante, che stimoli una risposta immediata. McDonald’s ora lo fa in grande stile. Utilizzando i dati di prima mano raccolti dall’app – preferenze di ordine, cronologia acquisti, orari di visita – riesce a personalizzare le offerte: ad esempio:
se un cliente ordina spesso menu colazione, riceverà promozioni dedicate ai nuovi prodotti mattutini;
chi è fan del McNuggets vedrà offerte speciali legate a quello.
In pratica, McDonald’s oggi adatta il marketing ai gusti individuali di ciascun cliente come un abile negoziante di quartiere, ma con la potenza di fuoco tecnologica e di dati di una multinazionale.
I risultati? Enormi. Il CEO di McDonald’s, Chris Kempczinski, ha dichiarato che aumentare l’adozione del programma fedeltà fa crescere sia la frequenza di visita sia la spesa media dei clienti abituali nel tempo.
I numeri degli ultimi bilanci confermano l’impatto: nel 2024 McDonald’s ha riportato oltre 28 miliardi di dollari di vendite attribuibili ai membri del programma fedeltà nei 12 mesi precedenti settembre.
Parliamo di vendite generate da clienti “tesserati” che vengono stimolati continuamente a tornare e spendere. Questi clienti iscritti ormai pesano per una quota crescente del fatturato: ogni trimestre i membri MyMcDonald’s Rewards incidono di più (ad esempio, $8 miliardi solo nel Q3 2024, rispetto a $6 miliardi nel Q1). È evidente che anche un gigante da 40+ mila ristoranti nel mondo ha trovato nei meccanismi di direct response una nuova linfa per crescere in un mercato maturo.
E McDonald’s non è certo l’unico caso. Possiamo citare Starbucks, altro colosso della ristorazione veloce, da anni avanguardia su questo fronte: il programma Starbucks Rewards via app conta oggi 33,8 milioni di iscritti attivi trimestralmente, i quali generano circa il 60% delle vendite totali dell’azienda – praticamente Starbucks dipende ormai principalmente dai clienti fidelizzati tramite la sua app (che consente accumulo punti, offerte personalizzate, ordini anticipati, etc.).
Un altro esempio lampante è Costco, la catena retail: attraverso la formula di membership (la tessera annuale) ha costruito uno zoccolo duro di clienti “superfan” che garantiscono il grosso delle vendite; i membri “executive” (fascia premium del loyalty) sono responsabili da soli di circa il 73% delle vendite globali di Costco. In altre parole, la grande distribuzione organizzata ha da tempo capito che fidelizzare e tenere per mano il cliente conviene enormemente.
Possiamo proseguire con gli esempi in ogni settore. Le grandi catene di abbigliamento? Ormai tutte hanno un programma fedeltà o raccolta punti collegato ai dati cliente. Victoria’s Secret, giusto per riprendere un esempio citato spesso, non ti fa uscire dal negozio senza proporti di registrarti al club (spesso sotto forma di carta di credito brandizzata con sconti esclusivi).
Le catene di articoli sportivi? Foot Locker ha lanciato un programma (FLX Rewards) così integrato nel business che oltre il 25% delle vendite del 2024 erano legate a membri iscritti, in crescita di vari punti percentuali sull’anno precedente, e l’azienda punta a portare la “penetrazione loyalty” al 50% delle vendite entro il 2026.
Nel frattempo, tu (qualunque cosa tu faccia) come anche il piccolo negozio di articoli sportivi all’angolo probabilmente non chiedete neanche l’email al cliente...
Grande distribuzione alimentare? Tessere fedeltà ovunque: in Italia quante piccole botteghe di quartiere fanno una fidelity card? Pochissime. Eppure il supermercato di catena anche sotto casa vostra (Conad, Coop, Esselunga, ecc.) già da anni vi traccia gli acquisti con la carta fedeltà e vi invia a casa coupon mirati o vi personalizza gli sconti sulla app.
E-commerce e Big Tech? Paradossale ma vero: persino i colossi nati sul digitale usano tattiche di direct response “tradizionali”. Google, ad esempio – sì, Google la regina della pubblicità online – investe centinaia di milioni di dollari anche in direct mail cartaceo pur di trovare nuovi clienti per i suoi servizi.
Avete presente quelle cartoline con un buono da 100€ di Google Ads che arrivano per posta alle piccole attività? Sono spedite proprio da Google: sanno che inviare un’offerta tangibile nella cassetta delle lettere, con magari scritto “Ecco 100 euro di pubblicità gratis per te”, attira l’attenzione molto più di una e-mail che finisce nello spam.
È ironico ma significativo: la più grande azienda di tecnologia al mondo sa che il direct marketing “vecchia scuola” funziona – test di settore mostrano che il direct mail ha tassi di risposta molto più alti dell’email, e Google questo lo sa bene. Non a caso usa la carta non solo per i coupon Ads: ogni volta che registri la tua azienda su Google Maps, per verificare l’indirizzo Google preferisce spedire una cartolina fisica con il codice, invece di affidarsi unicamente ai mezzi digitali. “Se lo fa Google...”, viene da pensare.
E che dire di Amazon? Anche qui siamo all’apparente paradosso: Amazon domina l’online, eppure spedisce milioni di cataloghi cartacei ai clienti (avete ricevuto il loro catalogo giocattoli natalizio, per esempio?).
Perché lo fa? Perché funziona. Amazon usa i dati degli acquisti online per stampare cataloghi personalizzati con prodotti a cui sai che quel cliente potrebbe essere interessato. È direct marketing puro: il messaggio giusto alla persona giusta, recapitato nella maniera più efficace.
Un report recente sottolineava come persino Amazon – “il gigante del marketing diretto online” – abbia riconosciuto l’efficacia del direct mail e lo usi attivamente per promuovere prodotti e offerte. In aggiunta, Amazon bombarda i clienti anche di email, notifiche push e messaggi in-app con offerte su misura, sfruttando la sua sterminata lista clienti (centinaia di milioni di utenti Amazon registrati) segmentata in base a cronologia di navigazione e acquisto.
Facebook (oggi Meta) non è da meno: anche se meno pubblicizzato, non è raro che piccole imprese ricevano per posta lettere da Facebook che promuovono crediti omaggio per iniziare a fare advertising sulla piattaforma. Chi l’avrebbe mai detto? Queste aziende tecnologiche hanno costruito imperi sul digital, ma per accaparrarsi clienti usano tutte le armi possibili, comprese quelle analogiche del direct marketing “classico”.
Insomma, lo scenario attuale è chiaro: non c’è quasi più grande brand, catena o azienda strutturata – in qualunque settore – che non raccolga in modo sistematico i dati di contatto dei clienti e li utilizzi poi per campagne mirate di vendita.
Dalle banche che profilano i correntisti e inviano proposte personalizzate, alle case automobilistiche che tengono un registro dei proprietari per richiamarli con offerte di manutenzione o nuovi modelli, ai colossi del lusso che curano liste di VIP per eventi ed edizioni limitate.
Tutti hanno capito una cosa semplice: avere una lista di clienti e prospect a cui poter parlare direttamente vale oro. Chi possiede i dati del cliente possiede il mercato. E mentre i grandi fanno incetta di dati, punti e tessere, che fanno molti piccoli imprenditori e commercianti? Dormono, o peggio, snobbano queste opportunità.
Posizionamento e specializzazione: il mercato premia chi si focalizza
Questa adozione massiccia del direct response da parte dei grandi brand non avviene nel vuoto, ma si inserisce in un trend più ampio di evoluzione del mercato che avevo previsto oltre 15 anni fa.
All’epoca andavo ripetendo (quasi gridando nel deserto) due concetti chiave agli imprenditori che seguivo: 1) “I soldi sono nella lista” e 2) “Dividi et impera” in termini di posizionamento. Il primo concetto lo stiamo vedendo ora in azione: la lista clienti come fonte primaria di redditività. Il secondo concetto riguarda la specializzazione e la focalizzazione.
Già 15 anni fa sostenevo, supportato dagli insegnamenti del leggendario Al Ries sul brand positioning, che il futuro di ogni settore sarebbe stata la segmentazione estrema: niente più “un po’ di tutto per tutti”, ma marchi focalizzati su nicchie e offerte specifiche.
Guardatevi intorno nel 2025: non è esattamente ciò che è successo? I ristoranti e bar generici e “per tutti” faticano o chiudono, mentre spuntano come funghi catene specializzate mono-prodotto o mono-tematiche che conquistano quote di mercato.
Qualche esempio italiano: Dispensa Emilia (format focalizzato sulla cucina emiliana, tigelle e gnocco fritto), Rossopomodoro (pizzerie napoletane doc), Capatoast (solo toast gourmet), Poke House (solo poké bowl hawaiane), le varie yogurterie ecc.
In altri settori, stessa storia: le profumerie indipendenti soffrono mentre catene monomarca come Lush o Kiko (solo cosmetica) prosperano; i negozietti di elettronica scompaiono mentre catene specializzate (es. Apple Store per i soli prodotti Apple, catene di solo gaming, ecc.) regnano.
Un brand diventa più forte quando restringe il suo focus, per citare Al Ries: questa legge del marketing oggi è sotto gli occhi di tutti.
Ho martellato su questo concetto nei miei corsi e libri per anni, portando persino Al Ries in persona come ospite in Italia per insegnarlo. Perché è rilevante qui? Perché direct marketing e posizionamento di nicchia sono le due facce della stessa medaglia per le PMI che vogliono sopravvivere e crescere.
Se scegli di focalizzarti su un segmento specifico (esempio: solo pizza napoletana d’asporto, o solo abbigliamento sportivo per running), automaticamente restringi il pubblico potenziale e non puoi più sperare di “acchiappare tutti” con la pubblicità generalista.
Devi puntare tutto sul colpire ripetutamente e con precisione quel pubblico ristretto ma altamente interessato: e l’unico modo efficiente per farlo è attraverso il marketing diretto su una tua lista di contatti. Quindi 15 anni fa dicevo: i mercati si frammenteranno in nicchie sempre più specializzate, e in parallelo il valore di costruirsi liste proprietarie di clienti fedeli diventerà la discriminante tra chi prospera e chi muore.
Oggi quella profezia è realtà.
Mi rendo conto che il mio “personaggio mediatico” possa non sempre essere gradito a tutti per il modo di dire le cose molto diretto. È possibile che a molti io suoni anche antipatico perché da sempre “macello le vacche sacre” e sembra che io voglia rompere le uova nel paniere al povero creativo che fa “il milanese” che fatica per portare a casa il pane. Lo so, me ne rendo conto e me ne dispiaccio.
Ma ho sempre avuto ragione. Simpatico o antipatico. Le chiacchiere stanno a zero.
I grandi brand stessi stanno creando sotto-marchi specializzati o linee di prodotto super mirate e usano il direct marketing per massimizzare il valore di ogni cliente in quei segmenti.
Pensiamo di nuovo a McDonald’s: mentre spinge sul loyalty generico, sta anche lanciando linee come McCafé (focalizzato sul caffè e colazioni, in diretta competizione con Starbucks) con offerte mirate a quel pubblico diurno; oppure brand paralleli come Chipotle o acquisizioni come Pret a Manger (hanno investito anche lì) per presidiare nicchie specifiche del food.
E ovviamente, database separati e campagne dedicate per ciascuno. I piccoli imprenditori dovrebbero essere avantaggiati in teoria nelle nicchie – loro nascono spesso da un’idea di specializzazione – ma ironicamente molti non stanno capitalizzando su questa posizione favorevole perché ignorano o sottovalutano il potere del direct response marketing.
Il paradosso: le PMI rinunciano all’arma pensata per loro
Siamo di fronte a un paradosso clamoroso: l’arma strategica che era stata concepita proprio per aiutare i piccoli a battere i grandi – il marketing a risposta diretta, con tutte le sue tecniche – oggi viene brandita dai grandi con enorme efficacia, mentre i piccoli spesso la lasciano arrugginire nel cassetto.
È come se Davide si fosse dimenticato della sua fionda, e Golia gliel’avesse rubata per dargli il colpo di grazia! Purtroppo è uno scenario che vedo ogni giorno sul campo, parlando con centinaia di PMI italiane: negozianti, ristoratori, professionisti che non raccolgono neppure un contatto dai clienti che passano dalla loro porta. Zero.
Il cliente compra una volta e sparisce nell’oblio, perché l’azienda non si è premurata di prendere un’email o un numero di cellulare per poterlo ricontattare. È una follia se ci pensiamo, ma è la norma.
Quante piccole attività conosciamo che registrano sistematicamente i dati dei clienti? La maggior parte fa spallucce: “Non ho tempo”, “Ho provato ma ai clienti non interessa”, oppure proprio “A cosa mi serve?”. Serve eccome!
Mentre loro si raccontano queste scuse, i grandi competitor (o le catene franchising concorrenti) si stanno costruendo database locali di migliaia di persone nella stessa città, e ogni settimana le bombardano di offerte invitanti facendole tornare a spendere da loro anziché dal concorrente indipendente.
Così il cliente che magari apprezzava la piccola hamburgeria artigianale, però intanto ha l’app di McDonald’s che ogni tot giorni gli regala un panino o un caffè se torna... indovinate un po’ dove andrà più spesso nel dubbio? La fedeltà va a chi la coltiva attivamente. E i grandi la coltivano, i piccoli no.
Riassumiamo il paradosso con qualche caso lampante già citato: la paninoteca a gestione familiare vs. McDonald’s – la prima non sa nemmeno chi siano i suoi 100 migliori clienti, il secondo conosce per nome e preferenze milioni di clienti e li coccola con messaggi continui.
Oppure il negozio di abbigliamento sportivo indipendente vs. Foot Locker – il primo vede magari 50 persone al giorno entrare, comprare e uscire anonime; Foot Locker fa in modo che ogni cliente esca col login nell’app o con la tessera FLX in tasca, così da poterlo seguire dopo.
O ancora, la parrucchiera sotto casa vs. la catena di saloni internazionale – quest’ultima ti propone la fidelity card per accumulare punti ad ogni taglio e magari ti manda l’SMS auguri per il compleanno con lo sconto, la prima si limita a sperare che tornerai da lei spontaneamente (ma se nel frattempo la cliente riceve l’SMS promozionale... capite dove si va a parare).
È amaro da dire, ma molti piccoli imprenditori stanno lasciando soldi sul tavolo – soldi che i loro concorrenti più strutturati raccolgono. E la ragione è l’inerzia o la sottovalutazione del direct marketing.
Qualcuno addirittura lo evita perché “non vuole sembrare un venditore di pentole da televendita”... Ebbene, news flash: il direct response non è fare i pagliacci in TV o su YuoTube urlando “offertissima, chiama ora!”.
Quello era semmai l’estremizzazione trash. Non è colpa mia, non ho mai insegnato una roba del genere. Se avete visto cose del genere vi siete rivolti alle persone sbagliate.
Oggi fare direct marketing per una PMI significa molto più professionalmente costruire relazioni con i propri clienti: tenere un database aggiornato, inviare periodicamente consigli, promozioni esclusive, inviti ad eventi privati, richiami per manutenzioni o controlli periodici (se sei un’officina o un dentista), auguri nelle ricorrenze, ecc.
Significa farsi ricordare e far sentire speciale il cliente, oltre che spingerlo all’azione quando serve. Non c’è nulla di poco elegante in questo, anzi: i clienti ormai si aspettano questo livello di cura, perché i grandi li hanno abituati così! Paradossalmente, se non lo fai, rischi di sembrare poco attento o antiquato.
Immaginate un attimo la scena: entri in un negozio indipendente e spendi 100€. Esci e nessuno ti chiede nulla, finita lì. Poi vai da Sephora (catena) e spendi 50€, e alla cassa ti chiedono subito se hai la tessera, se vuoi iscriverti per avere uno sconto, ti spiegano che accumuli punti, ecc. Chi dei due pensate che otterrà una seconda visita da parte vostra entro breve?
La probabilità è molto più alta con chi vi ha “agganciato” in lista e magari vi invierà un’offerta. È esattamente questo che sta succedendo su larga scala: i grandi stanno surclassando i piccoli usando le armi del direct marketing che erano state progettate per aiutare i piccoli a sopravvivere.
E lo fanno unendo l’infostruttura direct (liste, CRM, mailing, automazioni) al loro già schiacciante vantaggio di brand e budget. Capite bene che per il piccolo concorrente, questa combo è micidiale: il grande ha il marchio riconosciuto e in più ora ti contende il cliente sul piano personale, “intimo”, parlandogli direttamente all’orecchio (via email, app, SMS) magari con il tono amichevole di chi lo conosce. È guerra impari se il piccolo continua a ignorare queste tattiche.
Voglio sottolineare un elemento cruciale: il tempo. Per anni c’è stata l’illusione che “vabbè, i grandi non faranno mai queste cose, non ne hanno bisogno; io intanto vado avanti col mio marketing spicciolo”. Ora che i grandi lo fanno, qualcuno pensa “sì ma tanto io ho il rapporto personale, mi conoscono di persona i clienti, non ho bisogno di tecnologie”.
Sbagliato: il rapporto personale uno a uno non scala e non tiene il passo di concorrenti che combinano rapporto personale + tecnologia + budget. È tardissimo, ma non troppo tardi: siamo probabilmente all’ultima chiamata per le PMI che vogliono colmare il gap.
Sveglia PMI: agire adesso, prima che sia troppo tardi
Se questo articolo ha un tono un po’ allarmistico, è perché vuole esserlo. Consideratelo un campanello d’allarme, uno di quelli che suonavo già nei miei primi corsi come Venditore Vincente o Marketing Merenda e che ho ribadito di recente nel mio tour “La Rivoluzione delle PMI”: oggi più che mai, adottare le strategie di marketing a risposta diretta non è un optional per le piccole e medie imprese – è questione di vita o morte.
So che sembra forte detta così, ma guardate i trend sopra descritti. Riesco a essere così preciso sui casi McDonald’s, Starbucks, Foot Locker, Amazon, ecc. perché ne studio e analizzo i dati continuamente (deformazione professionale da marketer). E i dati urlano tutti la stessa cosa: il futuro è delle aziende “data-driven” che sanno generare risposta diretta dal cliente. Chi resta ancorato al vecchio modello “apro la serranda e spero che entri gente” è destinato all’estinzione commerciale.
La buona notizia è che le tecniche di direct response sono accessibili e si possono apprendere, persino più di quelle del branding classico. Non servono budget milionari; serve metodo, conoscenza e costanza. In altre parole, si può fare. Ma bisogna iniziare subito. Ogni mese di ritardo è un mese in cui i concorrenti avanzano. E non parlo solo dei giganti multinazionali: sempre più PMI sveglie stanno iniziando anche loro a usare queste strategie, diventando a loro volta “grandi” agli occhi dei micro-concorrenti locali.
Cosa può fare subito una piccola impresa per non finire schiacciata? Ecco alcune mosse urgenti (non approfondisco i dettagli per ragioni di spazio, ma ciascun punto potrebbe essere un progetto da avviare oggi, non domani):
Inizia a raccogliere i contatti di ogni cliente attuale e potenziale. Nome, email, telefono, compleanno… qualunque dato utile. Se hai un negozio fisico, implementa una tessera fedeltà o un semplice modulo di iscrizione (magari digitale con un tablet in cassa). Se sei online, assicurati che sul tuo sito ci sia almeno un form di iscrizione a una newsletter o simili.
Offri un incentivo per l’iscrizione – il famoso lead magnet. Può essere uno sconto sul prossimo acquisto, un piccolo omaggio, punti bonus, una risorsa gratuita (es. “guida pratica” nel caso di consulenti/professionisti). La gente oggi è abituata a dare il contatto in cambio di qualcosa: se i big lo fanno (“iscriviti e avrai il 10% di sconto subito”), fallo anche tu.
Utilizza i canali giusti: non esiste solo l’email (che comunque funziona ancora bene se usata correttamente), ma anche SMS, WhatsApp Business, Telegram, notifiche app (se hai un’app), persino la posta cartacea all’occorrenza. L’importante è poter raggiungere direttamente il cliente senza intermediari. La tua lista è un media proprietario, non soggetto agli algoritmi dei social o ai capricci di Google.
Segmenta e personalizza: una volta che inizi a raccogliere dati, non trattare tutti i clienti uguali. Anche con un semplice Excel all’inizio (anche se un CRM ovviamente è meglio), suddividi per categorie rilevanti (tipologia di acquisto, frequenza, interessi…). Poi invia messaggi su misura per ciascun segmento. Meno “spari nel mucchio” e più “cecchino” sarai, meglio risponderanno (ricordi la metafora del fucile di precisione? È ora di usarlo davvero).
Pianifica un follow-up costante: non basta fare una newsletter a Natale e Pasqua. Bisogna avere un calendario di comunicazioni regolari – settimanali, quindicinali, quello che ha senso per il tuo business – per tenere vivo il rapporto. Offerte, contenuti di valore, auguri, feedback post-vendita, richiami di manutenzione… ogni contatto è un’occasione per coltivare la relazione e stimolare una nuova vendita. Anche recuperare clienti “persi” (che non comprano da X tempo) deve diventare routine: individua chi non si vede più e mandagli un invito speciale a tornare, magari con un incentivo.
Misura tutto, migliora di continuo: la bellezza del direct response è che tutto è misurabile. Tassi di apertura email, percentuali di clic, redemption dei coupon, ROI di una cartolina inviata… Usa questi dati per capire cosa funziona e cosa no, e affina il tiro. Qui sta il vero potere rispetto al marketing generico: sai esattamente con 100€ di campagna quanti euro tornano indietro. Come disse giustamente Dan Kennedy, “servono fatti e dati concreti per prendere decisioni intelligenti in marketing”. Il direct marketing te li fornisce su un piatto d’argento (mentre il branding puro ti lascia spesso navigare a vista).
L’elenco potrebbe continuare, ma già applicare questi principi di base ti porrà anni luce avanti rispetto a dove sei oggi se non stai facendo nulla del genere. So già l’obiezione che qualcuno penserà: “Ma richiede tempo e impegno, chi me lo fa fare, già fatico a mandare avanti l’operatività…”.
Ti capisco, ma la contro-domanda è: “chi te lo fa fare di perdere la tua azienda perché ti hanno portato via i clienti?”. Perché di questo stiamo parlando. Svegliarsi ora è vitale. Non posso garantirti che se cominci ad adottare il marketing a risposta diretta avrai successo al 100% – dipende comunque da tanti fattori, incluso avere un buon prodotto/servizio e una strategia di posizionamento vincente – ma posso garantirti che se non lo fai, le probabilità di sopravvivenza della tua PMI nei prossimi 5-10 anni caleranno drasticamente.
E te lo dice uno che ci ha azzeccato sulle previsioni fatte 15 anni fa (con tanto di testimoni):
le categorie si stanno dividendo,
le nicchie specializzate prevalgono, e
il marketing diretto domina la scena operativa.
Non sto invocando la fine del branding anzi (ricordate che Al Ries è il mio primo mentore) – l’ideale, l’ho detto, è combinare entrambi. Un piccolo imprenditore deve comunque costruire un marchio solido nella sua nicchia (essere riconoscibile, differenziarsi, avere una storia di valore da raccontare) mentre costruisce e sfrutta la sua lista.
I grandi lo stanno facendo: mantengono l’affissione in centro, lo spot in TV per tenere alta la bandiera del brand, e insieme spingono sul direct response per massimizzare le vendite giornaliere. Tu devi fare uguale su scala ridotta: cura il tuo brand di nicchia (anche solo via social e passaparola locale) ma soprattutto arma il tuo marketing con la risposta diretta.
Conclusione: i soldi sono (sempre stati) nella lista
Permettetemi di concludere tornando a quella frase che ripetevo quando in Italia mi davano del pazzo idealista: “I soldi sono nella lista”. È un vecchio adagio del direct marketing, ma mai come oggi si è rivelato vero. Significa che il valore più grande non sta nel prodotto in sé o nella posizione del tuo negozio, ma nel portafoglio di contatti e relazioni che hai costruito.
Un’azienda con una lista fedelizzata può anche subire colpi (crisi, nuovi concorrenti, cambi di moda) e uscirne in piedi, perché ha una comunità di clienti su cui fare leva. Un’azienda senza lista è un castello di sabbia: basta una mareggiata (un competitor che fa una promo aggressiva, un periodo di calo fisiologico) e crolla tutto, perché non ha basi solide su cui ricostruire le vendite in fretta.
Oggi i grandi brand l’hanno capito e stanno investendo montagne di risorse per espandere e sfruttare le loro liste clienti – da McDonald’s che vuole 250 milioni di iscritti, a qualsiasi catena retail che mira al 50-70% di vendite da clienti member.
Hanno fatto loro il motto che per anni è stato snobbato nel mondo accademico del marketing: “The money is in the list”. E lo stanno traducendo in strategie concrete di conquista del mercato. Se sei una piccola o media impresa, questo dovrebbe farti tremare ma anche entusiasmare: tremare perché significa che stanno venendo a prenderti sul tuo territorio, ma entusiasmare perché ti conferma definitivamente che la strada del direct response è quella giusta, è quella che funziona davvero – talmente tanto da essere ora utilizzata persino dai colossi.
La domanda finale che ti pongo, imprenditore o professionista che mi leggi, è: lascerai che i “grandi” usino queste armi contro di te mentre tu resti inerme, o imbraccerai anche tu l’arco e le frecce del marketing a risposta diretta per difendere e far crescere la tua impresa?
La scelta è tua, ma il tempo per decidere sta per scadere. Personalmente, dopo aver dedicato tutta la mia carriera a insegnare e applicare queste tecniche, vedere i giganti confermare in massa le mie tesi di 15 anni fa mi dà la certezza che chi segue questa via oggi ha l’ultima, grande opportunità di saltare sul treno del successo.
Tutto il resto – le lamentele, le speranze che “i clienti tornino da soli”, i “ma io sono diverso, nel mio settore queste cose non vanno” – sono scuse che non ti potrai più permettere domani.
È il momento di agire. Inizia a costruire la tua lista, ora. Perché credimi, i soldi – i tuoi profitti di domani, la sicurezza della tua azienda, il tuo futuro – sono lì, nella lista. E se non te li prenderai tu, stai pur certo che qualcun altro (grande o piccolo che sia) lo farà al posto tuo.
PS: Vuoi una mano a capire come impostare il marketing della tua attività? Scrivimi due righe e parliamone.
Da persona che ha studiato per diventare smm, mi sono scontrata contro un muro di “faccio io, ho 2000 amici/followers”, “i social non mi servono”, “ho già chi si occupa della comunicazione” cioè un fotografo che fa belle foto patinate e butta lì un testo senza capo né coda.
I piccoli imprenditori spesso sono liberi professionisti, non proprio imprenditori. Non sanno neanche che esistono le newsletter, che considerano obsolete.
La gestione dei dati necessita policies, eppure c’è chi li usa a caso, non è che molti non hanno idea di come funzioni? Io mi sono ritrovata in chat di gruppo solo per aver lasciato il mio numero in un negozio, per essere informata su quando era pronto un oggetto che avevo portato ad aggiustare.