Moreno Bonechi (MB): Frank buongiorno, negli Stati Uniti Subway, per molti anni, era un simbolo delle cosiddette “alternative più sana” nel panorama del fast food. Oggi, però, sta attraversando un crollo clamoroso anche lì, con vendite in calo, scandali e clienti che se ne vanno.
Vorrei che ci spiegassi, in maniera molto dettagliata, i motivi concreti – anche ripescando le varie vicende che hanno travolto la catena in America. Perché Subway è passato dall’essere un colosso a finire nel mirino delle critiche e delle inchieste?
Frank Merenda (FM): Moreno ciao e buongiorno a tutti, dobbiamo partire da un dato di fatto: Subway era arrivato al punto di avere più sedi di qualunque altra catena fast food negli Stati Uniti, persino più di McDonald’s.
Per un certo periodo, soprattutto tra gli anni 2000 e la prima metà dei 2010, sembrava inarrestabile. Eppure, negli ultimi anni, sta scontando errori gravissimi di gestione, una serie di scandali mediatici e di cause legali, e soprattutto l’aver perso il suo posizionamento originario.
Dal punto di vista di Al Ries (l’autore di “Positioning: The Battle for Your Mind”), quando un marchio manca di coerenza e diluisce la propria identità, la gente si sente tradita e lo abbandona.
E Subway, per molto tempo, si è auto-raccontato come “healthy fast food”, un panino personalizzato che sostanzialmente ti faceva pure dimagrire. Ma la realtà si è rivelata diversa, e i clienti si sono sentiti presi in giro. Il crollo è stato rapido.
2. Jared Fogle e il crollo dell’immagine “healthy” di Subway
MB: Partiamo dal caso più eclatante, quello di Jared Fogle. In America è quasi un’icona negativa: un tempo era il volto di Subway, l’uomo qualunque che aveva perso chili mangiando i loro panini. Poi è scoppiato uno scandalo terribile che ha travolto la reputazione del marchio. Ci racconti i dettagli?
FM: Sì, è la storia di Jared, “il ragazzo qualunque che è dimagrito oltre 100 chili mangiando due sandwich Subway al giorno”. Per anni – dal 2000 al 2015 – è stato il testimonial-chiave. Subway l’aveva elevato a simbolo del “se vuoi perdere peso, il nostro panino è la soluzione.”
E in effetti, all’epoca era una trovata geniale: Jared, un tipo normalissimo, s’era messo a dieta, mangiando due panini Subway (uno a pranzo e uno a cena) e diceva di aver perso 245 libbre (oltre 110 kg).
Le vendite di Subway schizzarono: si calcola che, dopo il primo spot di Jared nel 2000, le vendite crebbero del 20%. E quando nel 2005 lui smise di girare pubblicità, i ricavi dei singoli negozi crollarono del 10%. Insomma, un impatto assurdo. Perciò Subway – che agiva in maniera, diciamo, “monotematica” – lo riprese subito come volto aziendale.
Poi nel 2015 succede l’impensabile: Jared viene arrestato e patteggia per reati gravissimi legati a pedopornografia, adescamento di minori, cose di una gravità enorme. Uno scandalo morale e mediatico di proporzioni epiche. E, fatto ancor più catastrofico: tutta l’identità di Subway era legata a lui, al suo racconto del dimagrimento. Di colpo, l’immagine “sana, family-friendly e positiva” crolla insieme alla credibilità del suo portavoce.
Ecco, è il primo grande colpo: passare da “brand salutista e rassicurante” a “brand associato al pedofilo Jared Fogle” è un massacro d’immagine. In Italia non ci fu lo stesso impatto, perché Jared non era così famoso, ma negli Stati Uniti quell’avvenimento ha devastato la reputazione di Subway.
Ed è un disastro che non si può imputare (direttamente) all’azienda per aver generato i crimini di Jared, ma certamente la colpa di Subway è d’aver puntato il 100% della propria comunicazione su un singolo testimonial. Una follia strategica, come ci insegna lo stesso Al Ries: se “personifichi” troppo il tuo brand in un testimonial, ne condividi i rischi.
3. Il “pane” che non era pane: la sentenza in Irlanda
MB: Ok, un primo gigantesco scandalo legato al testimonial. Ma non è finita lì: c’è anche la storia del “pane che non è pane” in Irlanda. Ricordo qualcosa a proposito di un’eccessiva quantità di zucchero. Come si è arrivati a questa figuraccia legale?
FM: Esattamente. Subway aveva cercato un escamotage in Irlanda per non pagare una tassa specifica (la VAT, la nostra IVA per capirsi). La legge irlandese prevede che certi alimenti base, come pane, latte, uova, siano considerati beni essenziali e quindi esenti da questa tassa o tassati meno.
Subway, nel tentativo di far rientrare il proprio “pane” nella categoria esente, ha fatto ricorso in tribunale dicendo: “I nostri sandwich contengono pane, quindi niente VAT, giusto?” Solo che la Corte Suprema d’Irlanda ha analizzato la composizione di tale “pane” e ha scoperto che il contenuto di zucchero era al 10% del peso della farina, mentre la norma irlandese dice che per essere definito “pane” non devi superare il 2% di zucchero sul peso della farina.
Risultato: la sentenza dice chiaramente che la sostanza usata da Subway non è pane secondo la legge irlandese, bensì un prodotto da forno zuccherino, assimilabile più a un dolce.
Questo, dal punto di vista mediatico, è devastante: suona come “da Subway, vendono panini con un ‘falso pane’ troppo zuccherato.” E di nuovo, la reputazione di “healthy choice” si scontra con la realtà di un composto iperzuccherato.
L’effetto su molti consumatori è: “Non è affatto il cibo sano che pensavo”. E cadiamo ancora nella contraddizione. Immagina la gente che sognava la dieta del panino integrale, poi scopre che è pieno di zucchero.
In Italia siamo fissati con la qualità del pane, e questa notizia, se fosse stata molto diffusa qui, avrebbe convinto definitivamente chiunque a girare al largo.
4. Il “Tuna Scandal”: il tonno che forse non è tonno
MB: Parliamo poi del “Tuna Scandal”, le cause legali che sostenevano che il cosiddetto tonno di Subway non fosse davvero tonno. Addirittura ho letto di test di laboratorio che non trovavano DNA di tonno. Possibile?
FM: Sì, questa è un’altra grana enorme piovuta su Subway tra il 2021 e il 2023. Un gruppo di clienti in California ha avviato una class-action asserendo che il “tuna sandwich” di Subway non conteneva in realtà tonno – o perlomeno, non tonno al 100%.
Hanno allegato prove di laboratorio condotte presso un dipartimento di Biologia dell’UCLA, in cui 20 campioni di “tonno” presi da vari Subway della zona non presentavano DNA di tonno rilevabile. Anzi, si parlava di tracce di pollo, maiale e altro.
Da un lato, Subway ha sempre negato, insistendo che il suo è vero tonno. Addirittura hanno aperto sul loro sito una sezione “Tuna facts”, per smentire le accuse. La causa poi è stata archiviata nel 2023, e i giudici non hanno emesso una condanna definitiva contro l’azienda. Quindi legalmente non è confermato che ci fosse “falso tonno”.
Ma, come hai detto tu, dal punto di vista mediatico il danno è fatto. Se devi creare una pagina di “autodifesa” per dire “Ehi, guardate che il nostro tonno è tonno sul serio!”, vuol dire che hai già perso nella percezione popolare. Se devo dubitare che mi stai dando tonno vero, figurati quanto si incrina la fiducia nel resto del menu. E non è una questione di “vincere la causa in tribunale”: è come con la vicenda del pane zuccherato – se la gente ti percepisce come non trasparente, la reputazione crolla.
Immagina qui in Italia, dove la qualità del pesce è sacra in tante regioni, e il cliente si aspetta materie prime decenti: scoprire ipoteticamente che “il tonno non è tonno” farebbe scoppiare uno scandalo da telegiornale. A livello di branding, è un suicidio.
Ti dirò: Al Ries e Jack Trout ripetevano sempre che un brand deve costruire la propria credibilità su un singolo posizionamento (es. “da noi ingredienti freschi e genuini”). Se poi salta fuori che la qualità è dubitabile, crolla tutto. E infatti Subway ha perso un altro pezzo della propria “storia di marca”.
5. L’illusione della “scelta salutistica” e le calorie reali
MB: Qui mi pare ci sia anche la questione delle calorie e del troppo sale. Molti studi universitari hanno dimostrato che un pasto Subway non è così leggero e salutare come si pubblicizzava. È vero che uno studio confrontava i pasti di McDonald’s e Subway e trovava scostamenti minimi?
FM: Esatto. Lo Journal of Adolescent Health ha pubblicato nel 2013 uno studio secondo cui i pasti dei teenager a Subway oscillavano intorno alle 955 calorie di media, contro le circa 1.000 di McDonald’s. Quindi non una differenza abissale. E c’era un contenuto di sodio (sale) molto alto, ben oltre i livelli raccomandati dall’Istituto di Medicina.
È importante capire che la storia di Jared funzionava perché lui mangiava due panini al giorno scegliendo le versioni più “pulite” e senza salse ipercaloriche. Niente formaggi doppi, niente maionese.
Chiaramente, se un comune cliente chiede un “footlong” (30 cm di panino) farcito con doppio formaggio, salse, bacon e via dicendo, si arriva tranquillamente a più di 1.000 calorie in un singolo pasto. E allora addio “healthy”.
Questo scollamento tra percezione “sono sano perché sto mangiando da Subway” e realtà “sto ingurgitando un panino ricco di zucchero, salse e sale” è micidiale per la credibilità del marchio.
All’inizio, quando i competitor vendevano cheeseburger iper-unti, Subway appariva relativamente più leggero. Ma con l’evoluzione del mercato (nuove catene fast-casual stile Panera, che in America ha un menù percepito come più fresco e salutare), Subway ha perso quell’esclusiva. E i clienti si sono accorti che la distinzione “noi siamo i sani, gli altri no” era più marketing che altro.
6. Fine dell’era del “$5 Footlong”: crollo del valore percepito
MB: Poi c’è stata la fine del mitico “$5 Footlong”, un’icona della recessione 2008. Oggi il footlong può costare anche 15 dollari in certi stati americani. Com’è possibile che si sia passati dal “panino da 5$” al “panino da 15$” in un tempo relativamente breve?
FM: È una vicenda quasi grottesca. Nel 2008 Subway lanciò la campagna “$5 footlong” come promozione temporanea, ma ebbe un successo strepitoso: la gente adorava l’idea di un panino lungo 30 cm a soli 5 dollari. Era un prezzo abbordabile in piena recessione, un “comfort food” economico. Così la promo fu mantenuta ben oltre la scadenza iniziale. Divenne un marchio di fabbrica.
Ma col passare degli anni, i costi delle materie prime, della manodopera, degli affitti, tutto è aumentato. Tenere la formula a 5$ significava uccidere i margini dei franchisee. Alcuni calcolavano che tra ingredienti, stipendi, bollette e royalty a Subway, ci guadagnavano quasi zero o addirittura perdevano su ogni footlong venduto a 5$.
Quindi Subway, su pressione dei franchisee, ha dovuto rialzare i prezzi. Ma il problema è che i consumatori erano abituati alla soglia dei 5$. Oggi un footlong, a seconda dello stato americano, può costare dagli 8 ai 15$.
A 15$, la gente si chiede: “Perché devo pagare così tanto per un panino nella catena dei panini economici?” Ecco la contraddizione: il brand era noto per “panino standard, economico, veloce”, e ora di economico e veloce c’è poco.
In molte città – e figurati in Italia – con 15$ o l’equivalente in euro (12-14€) ti prendi un pasto migliore, magari un panino gourmet in una paninoteca artigianale, o perfino un pasto seduto in un ristorantino.
Il “$5 footlong” era il perno del posizionamento di convenienza. Togliendolo, Subway non ha più quell’appiglio. E come diceva sempre Al Ries: “Se il tuo posizionamento era il prezzo basso, e quel prezzo non è più sostenibile, resti con un pugno di mosche.” E i clienti si spostano altrove.
7. Cannibalizzazione interna e franchising disfunzionale negli USA
MB: So anche che negli Stati Uniti c’è un problema di “due Subway sulla stessa strada”, e negozi troppo vicini che si rubano clienti l’uno con l’altro. Ho sentito di contratti di franchising molto penalizzanti e fee alte, mentre i competitor come Jimmy John’s o Jersey Mike’s guadagnano di più per ristorante. Ce ne parli?
FM: Eh, ecco un altro guaio: il franchising alla Subway. Per anni, l’azienda ha fatto soldi grazie alle fee di affiliazione, con costi d’ingresso relativamente bassi (15 mila dollari di franchise fee, e investimenti iniziali minori rispetto ad altre catene) che attirarono molti piccoli imprenditori.
Il problema è che nel contratto Subway c’è una clausola di concorrenza interna praticamente senza limitazioni. Ciò significa che, se vogliono, possono autorizzare un altro franchisee ad aprire un negozio a due passi da te. Nessuna protezione di territorio. Così i negozi si “cannibalizzano” a vicenda, specialmente nei centri urbani dove c’è la densità più alta.
In più, le royalty totali superano il 12% (8% di fee + 4.5% di ad fund), cioè una percentuale piuttosto alta se pensiamo che devi pure sostenere affitti, materie prime, personale. E i risultati medi per negozio? Meno di 500 mila dollari di incasso all’anno, mentre catene rivali come Jersey Mike’s o Firehouse arrivano a 1 milione medio per locale.
Di conseguenza, i franchisee Subway si sentono schiacciati: vendere panini scontati non fa profitto, aumentare i prezzi fa scappare i clienti.
A peggiorare le cose, Subway negli ultimi anni ha tirato fuori promozioni ritenute “folle” dagli affiliati (tipo super coupon e sconti a catena), in un mercato già saturo. Così i margini crollano. Un proprietario americano intervistato dal Washington Post raccontava che le vendite non erano tornate ai livelli 2012, ma i costi sì, e il profitto era cinque volte inferiore. Insomma, un incubo gestionale. Ed è per questo che molti franchisee stanno chiudendo.
In sintesi, troppi errori cumulati: Jared, scandali sul cibo, posizionamento salutista crollato, contraddizione sul prezzo, e franchising spinto all’estremo. È una tempesta perfetta.
8. Concorrenza spietata e addio al “relativamente sano”
MB: Nel frattempo, in America (ma pure altrove) nascono catene fast-casual più “fresche” e attraenti, come Panera, Shake Shack o Chipotle. Subway resta incastrata nella percezione di “fast food medio” ma senza la novità, giusto?
FM: Sì, esattamente. Una volta, Subway sembrava meno pesante dei Big Mac, ma oramai ci sono catene di panini artigianali come Jersey Mike’s, Firehouse Subs, Jimmy John’s, tutte percepite come di qualità superiore.
Poi c’è il fenomeno fast-casual stile Chipotle (cibo messicano “fresco”, personalizzato) e Panera Bread (zuppe, insalate, panificati di gamma più alta). Queste realtà catturano la fascia di clientela “voglio qualcosa di veloce ma buono”.
Se prima Subway era l’unico brand a rivendicare la “relativa salubrità”, adesso questa bandiera la sventolano in tanti e con più coerenza. Panera elenca le calorie e promette “cibo pulito”, Chipotle dice “ingredienti locali e genuini”. E se il cliente vuole un hamburger ma di qualità, va da Shake Shack o Five Guys, catene che negli USA sono percepite come “premium burger”.
Quindi Subway si trova in un limbo: non abbastanza salutare o gourmet per competere con Panera, non abbastanza economico e veloce per competere con i classici fast food.
Come dicevo, la fascia media è la più pericolosa: non sei distinto in nulla.“In un mare affollato, devi emergere con una specializzazione netta.” Se non lo fai, i competitor specializzati ti sbranano. E Subway, avendo puntato su prezzi bassi e identità “healthy” per decenni, si è trovato spiazzato quando i costi sono saliti e l’health claim si è rivelato dubbio.
9. I tentativi di rilancio e la vendita multimiliardaria
MB: So che Subway ha cercato di correre ai ripari: nuovi spot con celebrità tipo Serena Williams, nuovi menù, “Eat Fresh Refresh”, installazione di affettatrici in negozio per dare l’impressione di ingredienti più freschi… E poi la recente vendita a un colosso degli investimenti, Roark Capital, per oltre 9 miliardi di dollari. Sarà un nuovo inizio o un ultimo tentativo disperato?
FM: Alcuni segnali ci sono. Hanno investito su quell’“Eat Fresh Refresh” nel 2021, con uno spot in cui dicevano di aver cambiato molti ingredienti e migliorato la qualità. Poi hanno deciso di rimettere le affettatrici in-store, perché pre-tagliare e inviare la carne da un hub centrale costa e dà un’idea di “cibo processato,” mentre la clientela vuole la freschezza. Hanno anche cambiato i layout di alcuni locali, rinnovandoli, e ridotto alcune proposte obsolete.
Negli Stati Uniti – e un po’ in Europa – tentano di vendersi come più premium, introducendo “panini speciali” con proteine di qualità. Ma i fatti dicono che, fino a poco fa, le vendite per ristorante scendevano, i negozi chiudevano a centinaia.
Poi, nel 2024, c’è la notizia-bomba: Roark Capital compra Subway per 9, qualcosa miliardi. È un acquisto notevole che testimonia un certo “valore residuo del marchio”. Dopotutto, stiamo parlando di un colosso con migliaia di punti vendita nel mondo.
Certo, negli anni precedenti la valutazione era attorno ai 12 miliardi. Il fatto che la cifra finale sia scesa a 9–9,5 miliardi suggerisce un brand in calo.
Roark Capital, che possiede anche altre catene di ristorazione (tipo Arby’s, Cinnabon, Buffalo Wild Wings), si dice convinta di poter risollevare Subway con le ristrutturazioni opportune. Sarà da vedere se riusciranno a riportare i consumatori dentro i negozi, perché i competitor non stanno con le mani in mano.
In sostanza, c’è un barlume di speranza: se fanno scelte coraggiose, come ridurre i negozi in eccesso, puntare su ingredienti reali e non su surrogati, creare un marketing coerente e – soprattutto – definire di nuovo un posizionamento chiaro, forse si rialzano. Se, invece, proseguono con promozioni schizofreniche e cibo percepito come mediocre, la china continuerà.
Ricorda: un’operazione di private equity spesso ha un orizzonte di 5-7 anni. Roark cercherà di rendere la catena più profittevole e rivenderla o quotarla. La vera domanda è: riusciranno a ridarle un’anima?
10. L’incontro d’urgenza con i franchisee: dati preoccupanti
MB: Ho letto di un meeting d’urgenza con i franchisee, in cui si parlava di cali di vendite dell’8-10% in molte regioni. Notizie da panico. Sembra che a inizio agosto 2024 abbiano mandato inviti con la dicitura: “Questo meeting è essenziale. Discutiamo lo stato dell’industria e un aggiornamento sul nostro business.” Pare un segnale di allarme.
FM: Sì, quell’invito suona proprio come “ragazzi, la nave imbarca acqua, venite qui a vedere come salvare la baracca.” Già dal 2023 si erano visti segnali di calo continuo: la quota di mercato di Subway nel settore “sandwich e deli” negli USA è scesa dal 34% del 2017 al 23% del 2024. Un calo di 11 punti percentuali in 7 anni: enorme. Se i competitor crescono e tu arretri, è inevitabile agitarsi.
Dati come un -8.7% di vendite per ristorante in certe aree ti dicono che qualcosa non va. Uno scostamento del genere in un franchise di ristorazione è molto pesante. Quell’incontro straordinario con i franchisor di 19 mila negozi in Nord America è un tentativo di suonare la campanella: “Non possiamo perdere altri clienti, altrimenti chiudiamo.”
Ma la questione è: come recuperare la clientela, se hai un brand mezzo screditato, prezzi più alti e competitor spietati? Serve una strategia strutturale, non la solita “coupon mania” che peggiora i margini. Serve un restyling dell’offerta, una riduzione del numero di punti vendita per evitare cannibalizzazione, e un rilancio del marchio su basi chiare.
Non so se basterà qualche manager volenteroso: potrebbe darsi che ci voglia un cambio di rotta da parte dei nuovi proprietari, i fondi d’investimento. E questi ultimi, come detto, se non vedono margini rapidi, potrebbero pure “spolpare” e vendere a pezzi.
Comunque sì, la situazione negli USA è talmente seria che quell’incontro suona come “ultima spiaggia.” E la morale per noi, guardando dall’Italia, è che se un brand di tale portata globale rischia di affondare, tutti possiamo capire che nessuno è immune alle leggi del mercato: scarsa coerenza strategica, scandali, confusione sul posizionamento e cadi a picco. Vale per Subway come per chiunque.
11. Conclusioni: una lezione generale su focus e trasparenza
MB: Ora che hai spiegato nei dettagli i vari scandali – Jared, il “pane zuccherato,” il “tonno che non è tonno,” la fine del $5 footlong, le difficoltà del franchising – qual è il filo conduttore della crisi di Subway in America? Se dovessi riassumere la lezione per qualunque imprenditore che ci sta leggendo…
FM: Il filo conduttore è la perdita di credibilità unita all’aver distrutto un posizionamento coerente. Subway si era venduto come “la catena di sandwich sana, economica e veloce.”
Sana: crolla l’immagine a causa del Jared scandal (ti associ a un criminale) e poi si scopre che “il pane è zuccherato,” “non si sa se il tonno è vero,” e i panini spesso sono calorici quanto un Big Mac. Addio credibilità salutistica.
Economica: i panini costavano 5$ – un affarone. Oggi 15$, e la gente pensa “Mi fai pagare come un pranzo da ristorante per un panino di dubbia freschezza? No grazie.”
Veloce: resta veloce, ma ormai è scontato che qualunque fast food lo sia. E se vuoi qualcosa di veloce e gustoso, magari vai da un competitor più appetitoso.
Al Ries direbbe: “Se avevi un posizionamento e l’hai tradito, perderai i clienti che credevano in te e non ne guadagnerai di nuovi.” Ecco, questa è la crisi di Subway.
Perché quando ti posizioni come “healthy & cheap,” devi restarlo sempre. Se i costi di produzione salgono, tagli altri costi ma non aumenti i prezzi in modo drastico. Se le persone denunciano la bassa qualità, investi per aumentarla e comunichi i cambiamenti in modo trasparente. Non basta uno slogan come “Eat Fresh Refresh”; devi davvero migliorare gli ingredienti e mostrarlo con fatti tangibili.
Inoltre, se vuoi un testimonial, non puoi scommettere tutto su di lui. Va bene la storia di Jared, ma fai in modo di non dipendere al 100% da una persona. Se poi crolla lui, crolli tu. Altro errore: saturare il mercato con troppi negozi vicini (specie in America) e far incassare pochissimo ai franchisee, generando rancore e poca cura del servizio.
Insomma, un insieme di scelte sbagliate e di short-term thinking (pensare all’incasso immediato delle fee). La lezione: focus, coerenza, trasparenza. Se vuoi fare un business di successo, devi scegliere una singola promessa (prezzo? qualità? salubrità? location top?), martellarla e mantenerla nel tempo con i fatti, senza ipocrisie.
Devi anche stabilire un franchising equo e pensato per il lungo termine, non strozzare gli affiliati. E se commetti errori, devi gestirli in modo onesto, chiedendo scusa e correggendo subito la rotta. Subway non l’ha fatto abbastanza e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
Subway vs. Italia: Un’opinione senza peli sulla lingua
Moreno: Frank, parliamo di Subway e delle sue difficoltà, ma contestualizzandole all’Italia. In poche parole: perché nel Bel Paese i sandwich di Subway non hanno mai sfondato?
Frank: Ah, Subway in Italia... un flop (quasi) annunciato. Considera che ad oggi i ristoranti Subway sul territorio italiano si contano sulle dita (circa 15 locali in tutto, e molti dentro basi USA NATO). Letteralmente, più filiali di kebab sotto casa che Subway in tutta Italia! Il loro posizionamento qui è sempre stato fumoso: volevano venderci il “panino all’americana” come alternativa salutista e veloce, in un paese dove anche il bar o la salumeria dell’angolo ti fa il panino espresso col prosciutto di qualità. Risultato? Italiani che snobbano il “Footlong” e preferiscono un bel panino nostrano.
Non aiuta che Subway non abbia adattato granché l’offerta: ok, hanno messo forse la salsa al tartufo o il prosciutto di Parma in qualche occasione, ma resta quell’idea di pane gommoso e ingredienti un po’ standardizzati. Pensa al successo di chi mostra artigianalità (anche se mischiata a processi industrializzati) come Donato di Con Mollica o Senza o All’Antico Vinaio con le sue schiacciate.
In un mercato dove la qualità percepita del cibo da strada è altissima, Subway è sembrato plastificato. Domino’s Pizza docet: il gigante americano della pizza ha chiuso baracca e burattini in Italia dopo aver arrancato con 29 punti vendita e milioni di debiti. Se non convinci gli italiani su pizza e panini, game over.
Moreno: Interessante. Eppure Subway nel mondo è enorme. Cosa c’è di diverso in Italia rispetto ad altri Paesi? Possibile che catene italiane simili abbiano avuto più successo?
Frank: Esatto, il contesto italiano è particolare. Qui abbiamo catene domestiche che fanno concorrenza a Subway giocando in casa e vincendo. Prendi La Piadineria: ha preso un prodotto tradizionale (la piadina) e l’ha trasformato in un format fast-casual di successo clamoroso. Sono partiti da Brescia nel ’94 e oggi hanno circa 400 punti vendita in Italia (e anche in Francia).
Hanno mantenuto una focalizzazione ferrea: fanno solo piadine, ma di 30 tipi, tutte preparate sul momento con ingredienti italiani freschi. Niente menu strambi, niente hamburger o insalate hawaiane – solo piadine. E indovina un po’: funziona.
Servono 50 mila clienti al giorno sfornando 18 milioni di piadine l’anno . Anche all’estero non hanno snaturato il format: menù invariato, focus verticale sulle piadine – proprio la focalizzazione di Al Ries, no? – perché “la proposta resta fissa sulle piadine” . Risultato: fatturato oltre 200 milioni e persino fondi d’investimento che fanno a gara per comprarsela (CVC l’ha acquisita valorizzandola ~600 milioni di euro). Altro che i Subway semi-vuoti nelle stazioni...
Guarda Spontini, la storica pizzeria al trancio milanese. Anche lì: menu monolitico (una pizza alta al trancio con pomodoro, mozzarella e acciughe, stop) e servizio rapido. Per decenni un unico locale a Milano, poi finalmente hanno scalato replicando il format senza perdere l’anima. Oggi Spontini è in diverse città e pure a Tokyo in franchising, ma sempre con la stessa fetta di pizza.
Massimo Innocenti, il patron, inizialmente era contrario al franchising – “Spontini è unico, non seguo mode”, diceva – perché temeva di snaturare il prodotto. Ha cambiato idea con cautela, ma mantenendo il focus ossessivo sulla qualità e l’identità del marchio. È la prova che espandersi senza annacquare il concetto è possibile, ma serve disciplina. Al Ries applaudirebbe: niente line extension a sproposito, niente pizze con l’ananas o variante “bassa e scrocchiarella” per compiacere tutti.
Poi c’è Roadhouse e Old Wild West, che giocano in un campionato simile a Subway (quello della ristorazione casual veloce), ma con strategie diverse. Old Wild West, per esempio, ha puntato tutto su un tema forte (il Far West) e su burger e carne alla griglia di qualità. Hanno costruito locali scenografici, menu iper-calibrati su gusto italiano-americano (hamburgeroni, patatine, birra), e un franchising robusto: oggi è la più grande catena di burger & steakhouse in Italia con oltre 200 ristoranti già nel 2019 (adesso sono attorno ai 250) – altro che i 15 Subway nostrani.
Certo, aprire un Old Wild West è roba da investitori grossi: servono 900 mila – 1,2 milioni € di investimento per locale. Non si aprono “a cuor leggero” sotto casa. Ma quel modello ha garantito crescita costante: OWW ha superato la quota 200 locali affermandosi come leader italiano del settore .
Subway invece vantava investimenti iniziali molto più bassi – il che attira tanti piccoli franchisee, ma può portare a negozietti aperti ovunque senza un piano solido. La stessa Subway lo ammetteva nei suoi materiali: “Subway franchise è uno dei sistemi con i costi di investimento più bassi”.
Bene, peccato che questo abbia significato infilare punti vendita ovunque, anche dove non c’era domanda sufficiente, col risultato di vederseli cannibalizzare a vicenda.
Infatti negli USA Subway ha chiuso centinaia di negozi negli ultimi anni; gli esperti parlano di un difetto del modello che per anni ha incoraggiato troppe aperture ravvicinate, con franchisee poco informati che finivano per farsi concorrenza da soli. Insomma, basso costo, alto rischio. In Italia per fortuna (o sfortuna loro) non ne hanno aperti abbastanza da cannibalizzarsi – neanche arrivati a 20 store! – ma il principio è lo stesso: se apri a caso solo perché costa poco, fallisci facile.
Moreno: Quindi il franchising Subway soffre di problemi strutturali. A proposito, allarghiamo un attimo il discorso: fare franchising in Italia com’è? Quali difficoltà incontrano catene come Subway rispetto magari a modelli indipendenti?
Frank: Domanda ottima. Fare franchising in Italia è un’arma a doppio taglio. Da un lato hai la forza di un marchio noto e format già rodati; dall’altro hai costi fissi e vincoli che un imprenditore indipendente non ha.
In Italia molti potenziali affiliati ci pensano due volte: le fee d’ingresso e le royalty periodiche spesso “sono cifre da capogiro”, specie rapportate ai fatturati possibili. Per Subway, abbiamo detto: ~7.500 € di fee iniziale più l’allestimento locale (minimo 140-150k €), poi ogni mese l’8% del fatturato se ne va a royalties e un altro 4.5% in pubblicità centralizzata. In totale oltre il 12% del tuo incasso lo cedi alla casa madre.
E se il brand non tira, sono dolori: quei costi li paghi comunque. Un piccolo paninaro indipendente invece incassa e reinveste come vuole, senza dover spedire assegni a nessuno a fine mese. Certo, non ha il nome famoso sopra la porta, ma – diciamolo – quanti in Italia sono attirati dall’insegna Subway? Pochini. Quindi il vantaggio di branding per l’affiliato era relativo, mentre i costi erano certi.
C’è poi la questione gestionale: affiliarsi significa perdere autonomia. Molti franchisor (specie americani ma anche italiani) ti impongono fornitori, ricette, persino l’orario di apertura, con poca flessibilità locale. Se domani noti che tutti i clienti ti chiedono la mozzarella di bufala nel panino, non è detto che tu possa aggiungerla al menu se Subway non prevede quella voce.
Questo in Italia è un problema, perché i gusti locali contano eccome. Un imprenditore locale vorrebbe adattare l’offerta al quartiere – in franchising spesso non può. E se prova a fare di testa sua?
Con alcuni franchisor rischia la guerra: negli USA ex franchisee Subway hanno denunciato controlli asfissianti e addirittura la chiusura forzata del negozio per infrazioni minime (tipo una macchia sul vetro o verdure tagliate male). Insomma, franchising a volte significa burocrazia e litigi col “padre padrone” invece che supporto.
In Italia poi c’è la burocrazia nostrana, i vincoli sulle licenze, e un mercato immobiliare tosto (affitti alti per le location di pregio). Un Subway ha senso solo in vie di forte passaggio – stazione, centro, centri commerciali – dove però affitti e costi personale sono elevati. Devi vendere tanti panini per rientrare.
Se non raggiungi volumi americani, il franchisee campa a malapena. Alcuni imprenditori lo capiscono e preferiscono modelli indipendenti, magari più piccoli ma redditizi. Non è un caso che vediamo tante piadinerie artigianali singole o piccoli format locali prosperare: margini tutti loro, libertà totale. Lato franchising, resistono solo i concetti davvero vincenti.
Però attento: non è che il franchising sia cattivo a prescindere. Alcune catene italiane hanno sfruttato bene il modello, offrendo reale valore all’affiliato. CapaToast, ad esempio – la catena di “toasterie” – è cresciuta in pochi anni a 40 locali puntando molto sul supporto e su un’idea nuova di toast gourmet.
I fondatori hanno innovato su un prodotto semplice (il toast farcito) ma elevandolo con ingredienti top e ricette varie, e hanno fatto rete: oggi si definiscono leader di mercato e continuano ad aprire negozi in tutta Italia. Promettono formazione, marketing, materie prime selezionate (hanno persino ricette esclusive di pane senza alcool etilico, integrale, gluten free ecc. per distinguersi).
Insomma, danno un’identità chiara e un supporto reale agli affiliati, che in cambio accettano fee e regole. Tant’è che puntano ad arrivare a 80 punti vendita e stanno iniziando ad espandersi all’estero. Segno che se il format vale, la gente investe.
Un altro caso: Dispensa Emilia. Hanno ibridato ristorazione veloce e cucina tradizionale emiliana (tigelle, gnocco fritto) e sono a quota 48 ristoranti in 7 regioni . Lì molti locali sono diretti, ma anche in franchising il concept tira perché offre qualcosa di unico – “una formula ideale per un pranzo di qualità, rapido e conveniente”, parole del loro AD Alessandro Medi.
Notare le parole chiave: qualità, rapidità, convenienza. È il posizionamento chiaro che attira clienti e investitori. Subway invece qual è? Panino sì rapido, ma qualità discutibile e prezzo manco troppo economico… posizionamento confuso.
Moreno: Sembra proprio che torniamo sempre lì: focalizzazione e posizionamento. Dopotutto tu sei allievo di Al Ries, giusto? In che modo i concetti di Ries spiegano i problemi di Subway e magari offrono una via d’uscita?
Frank: Hai colto nel segno. Al Ries è praticamente sul comodino come santino per me. E lui direbbe che Subway ha diluito il proprio posizionamento fino a renderlo insignificante. Mi spiego: all’inizio Subway negli USA era “Eat Fresh” – il panino personalizzato, relativamente sano, contrapposto ai burger grassi.
Era una posizione chiara nella mente del consumatore. Poi col tempo hanno un po’ perso la bussola: menu infarcito di tutto (wraps, insalate, breakfast, perfino pizze in certi paesi), promozioni aggressive tipo “$5 footlong” che hanno sì venduto tanto ma declassato la percezione a cibo da discount.
Insomma, hanno tradito la legge della focalizzazione. E come diceva Al Ries, “a narrow focus is the key to success” – chi cerca di essere tutto per tutti finisce per non essere niente per nessuno. Subway oggi cosa rappresenta? Fast food? Healthy? Boh. In Italia di sicuro non è primo in nulla: per un panino veloce vai al bar sotto ufficio, per qualcosa di più sfizioso magari un piadina o un toast gourmet altrove. Subway rimane in un limbo.
La focalizzazione è l’origine sia del problema che la potenziale soluzione. Origine del problema perché Subway l’ha persa; potenziale soluzione perché, se volessero risollevarsi, dovrebbero ritrovarla.
Significa scoprire un’identità unica e martellarla forte. Magari in Italia potrebbero riposizionarsi su un aspetto specifico: ad esempio diventare “il vero American Subway” puntando sull’autenticità USA (panini giganti in stile New York, esperienza a tema metro americana – anche se dubito gli italiani vogliano l’esperienza della metro 🤣).
Oppure, all’opposto, italianizzarsi seriamente: meno salse dolciastre e più ingredienti locali DOP, pane davvero fresco (magari sfornato in loco e non surgelato), ricette pensate per il gusto italiano. Così però entri in territorio già occupato da altri… insomma non facile. E poi se vogliono la vera soluzione due soldi per pagarmi una consulenza li avranno no? (scherzo!).
Al Ries probabilmente suggerirebbe qualcosa di radicale tipo: tagliare tutto il superfluo e specializzarsi in un sotto-settore. Ad esempio, Subway potrebbe focalizzarsi solo su panini salutisti lasciando i panini grassi e bisunti agli altri – sparo ipotesi estreme, ma è per capire.
Oppure fare come Starbucks in Italia: aprire pochissimi store iconici puntando sul brand più che sulla quantità, perché saturare il mercato qui non funziona senza una storia decennale di successo come aveva la catena negli USA. Ma ehi, queste strategie richiedono coraggio, investimenti e soprattutto accettare di non poter piacere a tutti.
C’è un proverbio italiano che adoro: “Chi troppo vuole nulla stringe”. Subway ha voluto troppo – essere ovunque, per chiunque – e alla fine stringe poco, soprattutto in Italia. Un imprenditore illuminato direbbe: scegli una cosa e falla dannatamente meglio di chiunque altro.
L’ha fatto Piadineria con le piadine, Spontini con la sua pizza, Crocca (una nuova catena) con la sua pizza sottile croccante replicabile – cito il co-founder Nanni Arbellini: “la pizza croccante si presta a essere replicata... richiede una manualità più semplice che può essere insegnata facilmente”.
Hanno scelto una nicchia specifica e l’hanno scalata, perché scalabilità e focus spesso vanno a braccetto. Subway invece di nicchia ne aveva una (i sub da 30 cm personalizzati) ma l’ha diluita inseguendo troppe strade.
Moreno: Quindi riassumendo, Subway in Italia paga lo scotto di un modello franchising poco allineato al mercato locale e di un posizionamento poco focalizzato. Altre catene, con concetti più mirati e adatti al nostro pubblico, sono riuscite dove Subway no. Possiamo trarre qualche insegnamento generale da questa storia?
Frank: Assolutamente. Lezioni chiave: Primo, adattarsi al mercato locale sul serio. Non basta tradurre il menu in italiano; devi capire la cultura. In Italia “fast” non può significare sacrificare troppo la qualità. Se vuoi fare franchising qui, o hai un brand super forte che la gente deve avere (vedi Starbucks che fa leva sul mito americano, ma anche loro faticano), oppure offri un prodotto migliore o unico rispetto ai competitor locali. Subway non ha fatto né l’uno né l’altro.
Secondo, la lezione di Al Ries sulla focalizzazione: resta chiaramente definito nella mente del cliente. Se pensano a te, devono pensare a una cosa. Se dico “Subway”, l’italiano medio non ha quell’associazione forte (forse pensa ai treni della metro, ironia della sorte).
Invece:
“La Piadineria” = piadina fresca e veloce;
“Old Wild West” = hamburger in atmosfera western;
“Roadhouse” = steakhouse economica per famiglie (e gruppi di lavoro a pranzo), e così via.
Subway era
il panino personalizzabile sano
avrebbe dovuto martellare su quello e innovare lì dentro (es: pane artigianale, ingredienti bio locali, ecc.) per differenziarsi davvero. Invece ha inseguito i competitor sul prezzo basso e si è trovata senza identità. Mai rincorrere la concorrenza annacquando il proprio concept.
Terzo, parlando di franchising in generale: non innamorarsi del sogno facile. In tanti pensano che affiliarsi a un grande marchio sia un successo garantito. Ma come abbiamo visto, se il marchio non ha base solida, il franchisee resta col cerino in mano – o come scrive Forbes, rimane “con le briciole” mentre i fondatori si arricchiscono.
Insomma, valutare bene costi vs benefici: un franchising deve darti un vero vantaggio competitivo (brand forte, know-how, economie di scala) altrimenti paghi fee per nulla. Meglio fare da soli a quel punto, o scegliere un franchisor più serio.
Quarto (bonus): vale per tutti i settori – specializzarsi paga. Che tu apra un ristorante, un centro estetico o uno studio medico, la logica è simile. Una clinica dentistica franchising che fa di tutto un po’ rischia di essere vista come “catena commerciale”, mentre lo studio del dottor Rossi specializzato solo in implantologia magari si costruisce reputazione d’eccellenza su quella nicchia.
Nel food è lo stesso: oggi vincono format iper-specializzati (poke bowl, piadinerie, toasterie, pizzerie di un solo stile) perché la gente percepisce che sei il migliore in quella cosa specifica.
Come dice Ries, nella mente del cliente “il primo occupa tutto”. Il trucco allora è trovare una cosa in cui essere primi (anche piccola) e puntare su quella. Subway globalmente era prima nei sandwich fast food, ma in Italia quel titolo non vale, perché il panino non è visto come “fast food americano” ma come cosa nostra quotidiana. Erano outsider in un campo dove non cercavamo un nuovo leader.
In sintesi: la saga Subway vs Italia ci insegna cosa non fare quando si espande un business in un nuovo mercato. Non sottovalutare i gusti locali, non perdere la bussola del tuo posizionamento e non credere che un franchising, da solo, magicamente ti faccia fare soldi. Bisogna avere focus, adattamento e valore reale. Altrimenti, meglio non partire nemmeno. Come direbbe Frank (cioè io 😜): focus o non lo fai proprio. Alla fine, il mercato italiano non perdona gli indecisi – e Subway lo ha imparato a sue spese.
Moreno: Direi che è una chiusura perfetta, Frank. Grazie per la chiacchierata franca e ricca di spunti. In effetti, “focus o niente” potrebbe essere il mantra da appendere sul frigo di ogni imprenditore, italiano e non. Alla prossima!
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Moreno Bonechi (Monza e Brianza) con modalità lettura in background non si può sentire 😂😂😂