Perché se sono così bravi, i manager delle grandi società non lanciano nuovi Brand?
Quello che "i guru internazionali" del marketing a stipendio non ti dicono
Essendo italiano, nato a Sassuolo in provincia di Modena e non possedendo un master ad Harvard o Wharton o Stanford, quando parlo di marketing qualcuno tende a pensare che io mi sopravvaluti (forse a ragione, non dico per forza di no).
In particolare l’argomentazione più ricorrente degli esterofili attaccati al “pezzo di carta” è legata a: “Ma cosa vuoi saperne tu, che le grandi aziende possono assumere i migliori esperti di marketing del mondo. Come pretendi di saperne più di loro?” E capisco che sia un’argomentazione apparentemente solida e non ho intenzione di “smontarla” ma solo di condividere alcuni fatti acclarati.
Non per parlare di me o per “avere ragione”, ma per aiutare i piccoli imprenditori italiani a comprendere determinati meccanismi che gli “esperti” molto più blasonati di me, rinchiusi nelle torri di avorio non vogliono far sapere (o non hanno interessi affinché certe meccaniche siano note).
Negli ultimi dieci anni, Amazon, il colosso dell'e-commerce, ha incorporato nella propria famiglia molti marchi innovativi. Tra questi troviamo: Whole Foods Market (supermercati biologici), Zappos (e-commerce di moda), Twitch (piattaforma di streaming videoludico), Ring (dispositivi di sicurezza domestica smart), Audible (audiolibri) e PillPack (farmacia online).
Aspetta un momento, potresti pensare: Amazon non ha forse acquistato queste società da terzi invece di crearle da zero? Esatto. In effetti, Amazon ha acquisito tutte queste aziende e le ha poi integrate e rilanciate come parte del mondo Amazon.
Questo è esattamente ciò che fanno la maggior parte delle grandi società. Invece di lanciare nuovi brand da zero, preferiscono comprarli da altre aziende, a volte pagando cifre astronomiche.
L'acquisizione di Whole Foods è costata ad Amazon circa 13,7 miliardi di dollari nel 2017. Facebook (oggi Meta) ha sborsato 19 miliardi per aggiudicarsi WhatsApp nel 2014. Google ha pagato 1,65 miliardi per portare YouTube sotto la sua ala nel 2006.
E lo stesso approccio vale per altri colossi tecnologici: Microsoft, ad esempio, ha speso 26 miliardi per acquisire LinkedIn (social network professionale) e 8,5 miliardi per Skype (videochiamate), anziché sviluppare piattaforme proprie in quei settori.
Perfino Apple – nota per la sua innovazione interna – non ha disdegnato acquisizioni strategiche, come Beats Electronics (acquistata per 3 miliardi di dollari) per entrare nel mercato della musica in streaming e delle cuffie premium.
Da fuori, può sembrare paradossale: queste aziende dispongono di risorse immense e talenti di primo livello, eppure spesso preferiscono spendere miliardi per comprare start-up già affermate invece di usare quei fondi per innovare internamente. Perché?
Dal loro punto di vista è una via più sicura e rapida per entrare in una nuova categoria di mercato già validata, con una base di clienti esistente, evitando molti dei rischi e del tempo richiesti per costruire un brand da zero.
Ho grande rispetto per l'acume strategico dei leader di queste società. In articoli e libri ho spesso lodato alcune loro mosse di marketing vincenti. Tuttavia, da tempo ho un tarlo in testa: con tutta la loro intelligenza di marketing e potenza finanziaria, perché non lanciano marchi completamente nuovi invece di comprarli già avviati?
Non si tratta di una critica rivolta solo ad Amazon o a Meta. Quasi tutti i big del business seguono la stessa strada, in settori diversi. Pensiamo a PepsiCo: invece di sviluppare internamente bevande concorrenti, acquisì Mountain Dew (bibite gassate agli agrumi con caffeina) e Gatorade (bevande sportive) per entrare in quei mercati, pagando caro ma assicurandosi marchi già leader.
(Per la cronaca, PepsiCo un tentativo lo fece: lanciò una sua bevanda sportiva chiamata All Sport, che però non andò da nessuna parte. Così, qualche anno dopo, spese 13 miliardi di dollari per comprare il "vero affare", cioè Gatorade insieme alla sua casa madre Quaker Oats.)
E poi c'è Coca-Cola, spesso considerata la "Procter & Gamble" del settore bevande. Coca-Cola non è stata più abile nel creare nuovi marchi di quanto lo sia stata P&G: anzi, ha una lunga storia di rincorse a trend iniziati da altri. Coca-Cola ha perso il treno delle bibite agli agrumi con caffeina (pioniere: Mountain Dew) e provato a recuperare con Mello Yello e poi Surge, senza successo.
Ha ignorato a lungo il boom dei tè freddi e dei succhi naturali (dominato da Snapple) e il suo tentativo Fruitopia non ha lasciato il segno. Anche nella categoria delle cole "aromatizzate" stile Dr Pepper, la sua Mr. Pibb non è mai decollata davvero.
Nelle bevande sportive, Powerade è rimasto un lontano secondo dietro a Gatorade. E negli energy drink, dopo il flop dei suoi energy drink, Coca-Cola ha dovuto ripiegare stringendo un'alleanza con Monster Beverage pur di non restare esclusa da quel mercato.
Ecco un elenco di alcuni energy drink lanciati da Coca-Cola prima dell'accordo con Monster, che si possono considerare meno rilevanti in termini di impatto globale rispetto ai grandi nomi del settore:
Burn: Lanciato nei primi anni 2000, Burn è stato uno dei primi tentativi seri di Coca-Cola nel mercato degli energy drink. Pur essendo ancora presente in diversi mercati in Europa, America Latina e Asia, non ha mai raggiunto la stessa diffusione globale o la quota di mercato di Red Bull o Monster. È stato più rilevante in alcuni mercati specifici, ma a livello mondiale non si è imposto come leader.
Relentless: Introdotto nel Regno Unito nel 2006, Relentless era posizionato come un energy drink "premium" e con un'immagine più "adulta" e meno legata agli sport estremi rispetto a molti concorrenti. È stato popolare nel Regno Unito e in alcuni altri mercati europei, ma la sua espansione internazionale è stata limitata. Nonostante una buona presenza locale, non è diventato un marchio globale di grande rilievo.
Nalu: Lanciato in Europa, in particolare in Portogallo e Spagna, e in alcuni mercati africani, Nalu era caratterizzato da gusti fruttati e da un posizionamento che puntava al benessere e all'energia naturale (pur essendo un energy drink tradizionale). Sebbene abbia avuto un certo successo regionale, soprattutto nei mercati iberici, non si è espanso significativamente a livello globale e rimane un marchio con una diffusione limitata.
Vault Energy Soda: Negli Stati Uniti, Coca-Cola ha lanciato Vault nel 2005, un energy drink gassato al gusto agrumi, che si posizionava a metà strada tra una soda e un energy drink. Nonostante un investimento di marketing significativo, Vault non è riuscito a competere efficacemente con i leader del mercato americano e la sua produzione è stata interrotta nel 2011. È un esempio di tentativo fallito di Coca-Cola di penetrare nel mercato energy drink statunitense prima dell'accordo con Monster.
KMX/Kerk Original Energy: In Germania, Coca-Cola ha acquisito un marchio locale chiamato Kerk e lo ha rilanciato come KMX Energy. Anche in questo caso, l'obiettivo era entrare nel mercato energy drink tedesco, ma KMX non ha mai raggiunto una posizione dominante o una diffusione internazionale significativa. Rimane un esempio di tentativo più localizzato e meno impattante a livello globale.
È importante notare che alcuni di questi marchi sono ancora presenti sul mercato in alcune regioni, ma nessuno di essi ha mai raggiunto la scala e l'influenza globale di Monster o Red Bull.
Coca-Cola Energy: Ennesimo flop, lanciato a partire dal 2019 in diversi mercati globali, Coca-Cola Energy rappresentava un tentativo di Coca-Cola di entrare direttamente nel mercato degli energy drink con il proprio marchio principale, "Coca-Cola". A differenza dei tentativi precedenti che utilizzavano marchi secondari o regionali, questo era un attacco diretto al mercato con il nome Coca-Cola, sfruttando la riconoscibilità globale e la potenza del brand.
Con tutte queste opportunità mancate da parte di aziende così grandi, viene spontaneo chiedersi: perché colossi come Amazon, Google o Coca-Cola faticano a lanciare nuovi marchi da zero? In fondo le ragioni principali sono tre.
1. Un lancio guidato dalla pubblicità
La tentazione, per una grande azienda, è di lanciare un nuovo prodotto solo quando si può sostenerlo con un grande spiegamento pubblicitario.
Dopotutto, investendo in massicce campagne di marketing su TV, stampa e online, si spera di far conoscere rapidamente la novità a milioni di consumatori.
E molti dirigenti ritengono che solo chi ha un budget enorme possa "sfondare" con un nuovo marchio.
Il problema è che un marchio davvero innovativo di successo di solito si costruisce attorno a una nuova categoria di prodotto o servizio, che spesso richiede anni per svilupparsi appieno e creare un pubblico consistente.
Per quanto denaro tu ci possa mettere, non puoi forzare i tempi del mercato: se la categoria è agli inizi, i consumatori la adotteranno gradualmente e con cautela.
Ecco perché molti nuovi brand di successo iniziano in sordina, facendo leva soprattutto su pubbliche relazioni, copertura mediatica spontanea e passaparola, anziché su costose campagne pubblicitarie mainstream.
Pensiamo a casi come Starbucks (caffetterie di qualità), Gatorade (bevande sportive), Google (motori di ricerca), Red Bull (energy drink) o, più recentemente, Tesla (veicoli elettrici) e Netflix (streaming video).
Questi marchi – e molti altri – sono stati introdotti da imprenditori che hanno avuto la pazienza di restare sul mercato mentre la nuova categoria cresceva gradualmente intorno a loro, finché il pubblico non era pronto ad abbracciarli in massa.
All'interno di un grande gruppo, invece, raramente c'è la volontà di aspettare anni i frutti di un mercato embrionale: i vertici e gli azionisti vogliono vedere risultati importanti in tempi brevi, a fronte degli investimenti sostenuti. Un imprenditore indipendente, al contrario, può permettersi di coltivare una nicchia per anni senza troppe pressioni, finché essa non sboccia.
Prendiamo Tesla come esempio emblematico: entro la fine del 2009, dopo due anni sul mercato, Tesla aveva venduto appena 937 Roadster, la sua prima auto sportiva elettrica. (Non 937 mila, ma proprio novecentotrentasette auto in totale!)
Una qualsiasi grande casa automobilistica tradizionale, osservando quei numeri esigui, avrebbe concluso: «Non c'è mercato. Non possiamo permetterci di investire milioni in pubblicità per vendere solo qualche centinaio di veicoli.»
E probabilmente avrebbe abbandonato il progetto. Ma quando poi, anni dopo, il mercato dell'auto elettrica si è veramente sviluppato, per allora era troppo tardi lanciarsi con un marchio imitativo in ritardo: il pioniere (Tesla) aveva già conquistato la mente e il cuore dei consumatori.
Non mancano esempi recenti di questo fenomeno. Amazon Fire Phone, lanciato nel 2014 con enorme clamore mediatico per entrare nel mercato degli smartphone, si rivelò un flop epocale: pochi mesi dopo, Amazon dovette svalutare ben 170 milioni di dollari in scorte di telefoni invenduti .
Allo stesso modo, Google+, il social network con cui Google provò a insidiare Facebook, non riuscì mai a raggiungere una massa critica di utenti; è stato chiuso definitivamente nel 2019 proprio a causa del bassissimo coinvolgimento ottenuto.
Questi fallimenti insegnano un principio fondamentale: non basta il nome famoso di un grande gruppo e un budget milionario di marketing per creare dal nulla un nuovo mercato. Se il bisogno del pubblico non è ancora consolidato, o se c'è già un pioniere ben radicato, anche i colossi possono inciampare.
2. Un nome dettato dalla ricerca di mercato
Quando un'azienda deve battezzare un prodotto innovativo, spesso cede alla tentazione di usare un nome già esistente legato al proprio marchio famoso. Sfruttare un brand affermato sembra dare al nuovo prodotto un vantaggio immediato in termini di riconoscibilità e fiducia del consumatore, oltre a far risparmiare sui costi per "farsi un nome" da zero.
Ma non si può dominare una nuova categoria con il nome di un'estensione di linea di un brand esistente.
Invariabilmente, le nuove categorie di successo vengono guidate da nomi completamente nuovi, creati apposta per quella categoria. Gli esempi storici abbondano: Red Bull, non Arizona Extreme Energy; PowerBar, non Gatorade Energy Bar; YouTube, non Google Video; Amazon.com, non BarnesandNoble.com.
In tutti questi casi, il nome specializzato del nuovo arrivato ha battuto nettamente il nome "allungato" di un marchio già noto e legato a un precedente leader.
Eppure, nonostante la storia del marketing insegni che i nomi nuovi superano quasi sempre quelli stiracchiati da marchi esistenti, le aziende continuano imperterrite sulla strada delle estensioni di linea.
Perché insistono nel chiamare le loro novità con nomi derivati da brand già affermati? La risposta sta nelle ricerche di mercato e nella psicologia del consumatore.
Quando si chiede al consumatore medio quale nome preferirebbe per un nuovo prodotto, quasi invariabilmente sceglierà il nome a lui più familiare. C'è un bias naturale verso ciò che si conosce: un nome mai sentito può inizialmente lasciare perplessi o indifferenti, mentre un nome noto ispira subito fiducia.
Toyota Super o Lexus? In un sondaggio tanti risponderebbero "Toyota Super". D'altronde, chi aveva mai sentito parlare di Lexus prima del lancio? (Per nostra fortuna, alla fine degli anni '80 la Toyota decise di ignorare i focus group e lanciare comunque un marchio completamente nuovo: la scommessa pagò e pochi anni dopo Lexus divenne uno dei brand di lusso più venduti negli Stati Uniti, sinonimo di qualità premium.)
Mercedes-Benz Ultra o Maybach? Un cliente facoltoso medio probabilmente sceglierebbe sulla carta la comodità del nome Mercedes, anziché un marchio sconosciuto come Maybach. Eppure, nel lungo periodo, un nome inedito e distintivo come Maybach avrebbe potuto conferire a un'auto extra-lusso un'aura di esclusività impossibile da ottenere con un ipotetico "Mercedes Ultra".
Vale la pena notare che non esistono reali eccezioni in cui un'estensione di linea ha avuto successo, ma solitamente si tratta di varianti all'interno di una categoria già presidiata dal marchio principale. Ad esempio, Coca-Cola Light (Diet Coke) è riuscita a conquistare la leadership tra le cole dietetiche sfruttando il traino del nome Coca-Cola – ma solo perché Coca Cola decise di sostituirla a TAB, il suo marchio leader nelle cola dietetiche. Ne ho parlato nel dettaglio in questo video.
Quando nasce una categoria davvero rivoluzionaria (si pensi agli energy drink, ai social network, ai servizi di streaming), a dominarla sono marchi creati appositamente per quella novità.
In definitiva, affidarsi pedissequamente a ciò che dicono i focus group sui nomi può rivelarsi un errore strategico. Un'azienda che vuole guidare una nuova categoria deve avere il coraggio di dare un nome nuovo al proprio prodotto rivoluzionario, anche se inizialmente ai consumatori quel nome non dice nulla.
Meglio insegnare al mercato un termine nuovo associato a qualcosa di unico, che appiccicare un nome noto a qualcosa di potenzialmente straordinario rischiando di farlo percepire come l'ennesima variante di ciò che già esiste.
Non è un caso che i prodotti di maggior successo di Facebook oggi – Instagram e WhatsApp – abbiano mantenuto i loro nomi originali separati: erano nati come marchi indipendenti e hanno conservato la propria identità dopo l'acquisizione.
Ogni volta che Facebook (oggi Meta) ha provato a lanciare una novità sotto il proprio nome – pensiamo a Facebook Portal (videochiamate), Facebook Watch (video streaming) o ai vari cloni di Snapchat – i risultati sono stati tiepidi se non deludenti.
Allo stesso modo, Google ha dovuto ammettere la sconfitta di brand estesi come Google Video o Google+ quando ha deciso di puntare su nomi nuovi già affermati nel mercato (YouTube per i video, Android per i sistemi mobili). In ambito di naming, dunque, i giganti spesso imparano a posteriori che per innovare davvero serve un nome nuovo e focalizzato.
3. Un piano di distribuzione troppo ampio
L'ultimo ostacolo è la distribuzione. Per giustificare un grande lancio pubblicitario, le aziende tendono a pianificare una distribuzione su larghissima scala del nuovo prodotto fin dal primo giorno.
Si aspettano di vederlo ovunque: sugli scaffali di tutti i supermercati, in ogni negozio di settore, in tutte le città, immediatamente. E per ottenere questa presenza capillare, fanno leva sulla rete commerciale con ogni mezzo: forti sconti ai rivenditori, promozioni "2×1", lotti gratuiti di prodotto, e perfino il pagamento di onerose slotting fee (contributi extra ai distributori per garantirsi spazio a scaffale).
Le grandi aziende poi credono di poter effettuare un lancio in pompa magna assumendo uno o più testimonial “famosi”, come cantanti, personaggi dello spettacolo, attori ecc… per mettere la loro distribuzione lampo “sotto steroidi”, sperando che questa cosa acceleri i risultati.
Purtroppo, le probabilità sono tutte contro un approccio simile.
I nuovi brand raramente decollano dall'oggi al domani: di solito crescono piano.
Senza un robusto sell-through (cioè senza che il prodotto si venda rapidamente una volta esposto nei negozi), la stragrande maggioranza dei lanci su vasta scala è destinata a fallire. Un famoso studio di Nielsen BASES insieme a Ernst & Young rilevò un tasso di insuccesso del 95% per i nuovi prodotti di largo consumo lanciati negli Stati Uniti, e del 90% in Europa.
Numeri impressionanti, che evidenziano quanto sia difficile far adottare immediatamente un prodotto completamente nuovo attraverso i canali distributivi tradizionali.
Esiste un approccio migliore alla distribuzione: l'esatto opposto, ovvero partire in modo mirato e ristretto. Invece di disperdere subito il prodotto ovunque, lo si introduce in pochi punti selezionati, magari in un unico canale o con un singolo partner strategico, per poi espandersi gradualmente una volta ottenuto un primo riscontro positivo. In altre parole, cominciare "in piccolo" anziché "in grande".
Gli esempi non mancano. Charles Shaw, ad esempio, un vino californiano economico soprannominato "Two-Buck Chuck", partì vendendo esclusivamente presso la catena Trader Joe's (e solo in California). Il risultato?
Divenne il vino da tavola a più rapida crescita di sempre negli USA, grazie a quel lancio focalizzato e accompagnato dal passaparola positivo dei clienti.
Allo stesso modo, la salsa per insalate Newman's Own fu introdotta inizialmente in un solo supermercato locale (Stew Leonard's a Norwalk, Connecticut): quel negozio riuscì da solo a vendere 10.000 bottiglie nelle prime due settimane, generando un "buzz" mediatico che spianò la strada al successivo successo nazionale.
Questa filosofia del lancio limitato vale anche nel mondo digitale. Molti servizi tech di successo hanno inizialmente limitato l'accesso in modo deliberato.
Facebook iniziò in maniera esclusiva: all'inizio era riservato solo agli studenti di Harvard; visto il successo, fu esteso alle altre università americane, quindi aperto gradualmente al pubblico di tutto il mondo.
Questo lancio controllato contribuì a creare desiderio ed entusiasmo attorno al servizio e permise al team di migliorarne le funzionalità prima del grande salto.
Gmail, il servizio email di Google, partì nel 2004 come beta solo su invito: per oltre un anno soltanto pochi utenti selezionati (e i loro amici invitati) poterono creare un account. Gli inviti a Gmail divennero oggetto di culto (al punto che c'era chi li vendeva online) e quell'alone di esclusività diede a Gmail il tempo di perfezionarsi, generando al contempo enorme curiosità tra il pubblico.
Più recentemente, l'app audio-social Clubhouse (nel 2020) ha adottato la stessa tattica: accesso soltanto su invito e solo per utenti iPhone nei primi mesi. La scarsità artificiale di inviti fece schizzare l'interesse e le discussioni attorno al servizio (anche se poi, una volta aperto a tutti e troppo velocemente, l'hype si è ridimensionato).
Anche nel settore alimentare e retail vediamo strategie simili. La startup Beyond Meat, per esempio, lanciò il suo burger vegetale Beyond Burger nel 2016 esclusivamente in un singolo supermercato Whole Foods di Boulder, Colorado, dove il prodotto andò esaurito in un'ora.
Solo dopo quel test iniziale di successo, l'azienda decise di ampliare gradualmente la distribuzione ad altri punti vendita e, col tempo, a catene nazionali e internazionali.
Con una distribuzione inizialmente limitata, un'azienda può concentrare gli sforzi e creare un'esperienza speciale attorno al prodotto. È più facile organizzare dimostrazioni sul punto vendita, formare adeguatamente il personale, raccontare la storia del brand ai clienti e raccogliere feedback preziosi dagli early adopter.
Tutto questo aumenta le probabilità di successo del marchio quando arriverà il momento di affrontare il grande pubblico, perché nel frattempo si sarà costruita una reputazione solida e un seguito di fan entusiasti.
In sintesi, i giganti aziendali spesso non lanciano nuovi marchi perché i loro modelli operativi li portano ad approcci poco adatti alle novità: puntano su grandi budget pubblicitari invece di coltivare pazientemente nuovi mercati; preferiscono nomi già noti (validati dai sondaggi) invece di osare con nomi nuovi; e cercano una distribuzione di massa immediata invece di far crescere il prodotto in una nicchia controllata.
Eppure, la chiave per lanciare un nuovo brand vincente sembra proprio essere andare contro queste intuizioni istintive:
investire meno in pubblicità iniziale e più in pazienza e PR;
scegliere un nome inedito e mirato invece di uno generico che piace ai focus group;
puntare su una partenza ristretta e focalizzata anziché inseguire subito la presenza ovunque.
Non sorprende allora che la storia si ripeta nei trend emergenti di oggi.
Ad esempio, la nuova ondata dell'intelligenza artificiale generativa è partita da una piccola organizzazione indipendente (OpenAI, creatrice di ChatGPT), non da colossi come Google o Microsoft – e infatti Microsoft è corsa ai ripari investendo miliardi in OpenAI per non restare tagliata fuori.
Nel campo dei veicoli elettrici, una società nata da zero come Tesla ha superato in valore e innovazione produttori storici come Ford o Toyota, spingendo questi ultimi a inseguire (spesso investendo in start-up come Rivian o creando tardivamente linee elettriche proprie).
Nel video streaming, fu la startup Netflix a introdurre per prima il modello vincente, costringendo poi i grandi studios di Hollywood (Disney, Warner Bros. e altri) a lanciare le loro piattaforme solo diversi anni dopo, a mercato ormai educato.
Persino nel food tech, marchi come Beyond Meat e Impossible Foods hanno guidato la rivoluzione plant-based, mentre i colossi alimentari tradizionali sono rimasti a guardare fino a quando quei nuovi brand non hanno validato il mercato.
Spesso sono dunque i nuovi entranti ad avere l'audacia di partire in piccolo, con un nome nuovo e un focus preciso, e a far crescere lentamente una rivoluzione. Il finale abituale vede poi le grandi società arrivare in ritardo, aprire il portafoglio e acquisire quei marchi pionieri che non sono riuscite a creare in proprio.
In conclusione, le grandi aziende dispongono di risorse immense, ma spesso mancano dell'agilità e della visione a lungo termine necessarie per coltivare un nuovo marchio dal nulla.
Se trovassero il coraggio di agire un po' più da start-up – con lanci graduali, nomi inediti e pazienza nello sviluppare nuovi mercati – potrebbero evitare di dover in seguito staccare assegni miliardari per acquistare quelle innovazioni dirompenti che, in teoria, avrebbero potuto creare in casa sin dall'inizio.
A conti fatti, chi arriva per primo e costruisce con pazienza il proprio mercato ottiene un vantaggio che i concorrenti tardivi faticheranno sempre a recuperare.
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