Patagonia: l'unico brand "Green" che funziona alla grande
Per capire la strategia di Patagonia, facciamo un passo indietro fino alle sue origini. Negli anni ‘70 il mercato dell’outdoor sportivo vedeva già marchi affermati come The North Face (fondato nel 1966), Columbia (azienda nata negli USA, focalizzata su abbigliamento invernale) e altri competitor emergenti.
Molti brand puntavano sulla performance tecnica o sul prezzo. Yvon Chouinard invece parte da un’idea diversa: produrre il miglior prodotto possibile, causando il minor danno ambientale possibile.
Il primo business di Chouinard fu la vendita di picchetti da arrampicata riutilizzabili (in un’epoca in cui i chiodi da roccia erano monouso e rovinavano le pareti). Già qui c’è un posizionamento implicito: innovazione tecnica unita a sostenibilità.
Quando nel 1973 nasce il marchio Patagonia per dedicarsi all’abbigliamento, il focus è lo stesso: trasferire l’attenzione alla qualità durevole dall’attrezzatura all’abbigliamento.
Patagonia entra dunque nel mercato con una proposta distintiva: capi outdoor di alta qualità, pensati per durare a lungo, riducendo così la necessità di comprarne di nuovi (minore impatto ambientale).
Confrontiamo questo posizionamento con quello dei concorrenti di allora e di oggi:
- The North Face: brand nato come fornitore per spedizioni e oggi diffuso anche come moda urbana. Ha puntato storicamente sulla performance tecnica estrema e sull’avventura, per anni senza un’enfasi particolare sulla sostenibilità (solo di recente TNF ha introdotto linee in materiali riciclati, ma non è il fulcro della sua identità).
TNF investe molto in marketing tradizionale, sponsorizzazioni di atleti e anche promozioni stagionali. Patagonia invece si è distinta fin dall’inizio per l’impegno ambientale come parte integrante del prodotto, non come aggiunta di marketing.
- Columbia Sportswear: brand più antico (anni ‘30) orientato al grande pubblico, con un posizionamento sul valore funzionale e prezzo accessibile. Columbia pubblicizza spesso l’innovazione tecnologica (membrane impermeabili proprietarie, ecc.) e fa uso di saldi e coupon nelle vendite.
In confronto, Patagonia ha scelto di posizionarsi più in alto (fascia premium), con prezzi elevati giustificati da qualità e mission etica. Questo approccio “premium etico” le ha permesso di evitare la guerra dei prezzi con concorrenti come Columbia o i marchi della grande distribuzione (es. Decathlon), rivolgendosi a un pubblico disposto a pagare di più per un prodotto in cui crede.
- Altri marchi outdoor (Marmot, Arc’teryx, Salewa, etc.): molti puntano su nicchie tecniche (alpinismo estremo, sci, etc.) oppure sullo stile. Alcuni, come Arc’teryx, hanno un posizionamento premium per qualità e design, ma senza la stessa enfasi idealistica. Patagonia ha occupato uno spazio mentale preciso: il brand outdoor per chi ha a cuore l’ambiente.
Come sintetizza un’analisi di settore, “Patagonia ha posizionato sé stessa come il marchio che produce abbigliamento outdoor di alta qualità minimizzando l’impatto ambientale”, ottenendo risonanza presso i consumatori ambientalmente consapevoli.
In senso assoluto, Patagonia è sempre rimasta fedele a questo posizionamento. Quando molti anni dopo altri brand hanno provato a vestirsi di “green” per moda, spesso non sono risultati credibili. Patagonia invece, essendo nata green, ha potuto consolidare nel tempo la propria reputazione autentica. Il suo posizionamento è talmente radicato che il marchio è diventato quasi sinonimo di sostenibilità outdoor.
Nel gergo di Al Ries, Patagonia è riuscita a possedere una parola nella mente dei clienti: “sostenibilità” (ambientale) nel contesto outdoor. Mentre un concorrente come Nike nel settore abbigliamento sportivo possiede parole come “performance” o “just do it” (azione), e Gucci nel lusso possiede “stile”, Patagonia possiede “etica”/“sostenibilità”. Questo vantaggio di posizionamento le conferisce un’identità unica rispetto a qualsiasi competitor diretto.
Lezioni di Al Ries : il positioning vincente di Patagonia
Al Ries definisce il brand come:
“un concetto singolare o un’idea che possiedi nella mente del cliente”.
Patagonia incarna alla perfezione questa definizione: nella mente del suo pubblico, Patagonia = “l’azienda outdoor etica e sostenibile”. È un concetto chiaro, focalizzato e differenziante. Vediamo come le teorie classiche di Ries & Trout sul posizionamento e le immutable laws of marketing si riflettono nel caso Patagonia:
- La legge della leadership e della categoria: Ries e Trout sostengono che “essere i primi” in una categoria dà un vantaggio enorme, ma se non puoi essere primo, crea una nuova categoria in cui essere il leader.
Patagonia non è stata la prima azienda di abbigliamento outdoor in assoluto (The North Face e altre l’hanno preceduta), ma di fatto ha creato una nuova categoria: quella dell’outdoor brand ambientalista. Negli anni ‘70 nessuno usava termini come “sostenibile” nel marketing.
Patagonia è stata pioniera nel fare della responsabilità ambientale il cuore della propria categoria. In questo modo, ha assunto la leadership nella mente di chi cercava un’alternativa etica: se vuoi un prodotto outdoor verde e di qualità, Patagonia è la prima che ti viene in mente.
“È meglio essere i primi nella mente che primi sul mercato”, insegnano Ries & Trout, e Patagonia è stata la prima nella mente dei consumatori in questa nuova dimensione valoriale.
- La legge della focalizzazione: “Il concetto più potente nel marketing è possedere una parola nella mente del cliente”. Come accennato, Patagonia si è focalizzata ossessivamente su una parola (concetto): ambiente (o sostenibilità). Tutto ruota attorno a quello. Questo focus estremo rispetta anche la legge del sacrificio: per essere forte in qualcosa, devi sacrificare altro.
Patagonia ha “sacrificato” volutamente alcune opportunità di mercato: ad esempio, non ha inseguito il mercato del fast fashion o dell’athleisure modaiolo, pur essendoci domanda enorme, perché sarebbe uscito dal suo focus etico (vendere capi destinati a durare poco sarebbe contro i suoi principi).
Non produce migliaia di referenze diverse per accontentare tutti: mantiene una linea prodotti abbastanza essenziale, mirata all’outdoor e al casual di qualità, spesso ignorando trend passeggeri. Questa disciplina di focalizzazione – essere tutto per qualcuno, non qualcosa per tutti – è esattamente ciò che Al Ries raccomanda per costruire un brand solido.
- La percezione conta più della realtà (legge delle percezioni): “Il marketing non è una battaglia di prodotti, ma di percezioni”. Il caso Patagonia lo conferma: in termini di prodotto fisico, una giacca Patagonia e una giacca di un concorrente come Arc’teryx possono essere simili per materiali o performance.
Ma la percezione differisce enormemente. Patagonia, grazie alla sua comunicazione e coerenza di comportamento, è percepita come azienda buona, autentica, quasi un movimento culturale, non solo un venditore di giacche. Questa percezione aumenta il valore del prodotto nella mente del cliente, che giustifica un premium price e genera lealtà.
I competitor che hanno provato a imitare alcune iniziative green senza averne l’anima (il classico greenwashing) non hanno ottenuto la stessa percezione, anzi spesso sono stati accolti con scetticismo.
Come nota Laura (figlia di Al Ries e anch’essa esperta di posizionamento), “i consumatori non scelgono un prodotto solo perché è “green”; anzi, molti pensano che un prodotto eco sia più costoso, meno efficace”.
Il “green” di per sé è un punto debole se non è accompagnato da altro.
Patagonia ha superato questo ostacolo costruendo un brand forte attorno al green: ha unito l’attributo ambientale a un’altra promessa fondamentale, quella di alta qualità e performance tecnica.
Laura spiega che il trucco è proprio questo: combinare il green con un altro attributo vincente, ad esempio green + alta performance, così che il consumatore abbia un motivo in più per scegliere il prodotto. Patagonia lo ha fatto: green + qualità top.
Il risultato è che la gente non vede Patagonia come “marca ecologica = prodotto scadente”, ma come “marca top di gamma anche ecologica”. Il green qui diventa un valore aggiunto credibile, non l’unico argomento di vendita.
- La legge della sincerità (candor): Una delle strategie suggerite da Ries & Trout è che ammettere una pecca può rendere credibili agli occhi del pubblico, spostando poi l’attenzione su un punto di forza.
Patagonia ha applicato una forma estrema di sincerità con la campagna “Don’t Buy This Jacket”. In quell’annuncio ammetteva apertamente: “questa giacca ha un costo ambientale alto, come tutte le cose che produciamo”. In pratica dichiarava: “il nostro prodotto non è privo di impatto, anzi vi sveliamo noi quanto consuma e inquina”.
Questo approccio brutalmente onesto ha dato enorme credibilità al brand (chi altro avrebbe il coraggio di dire “non comprate il nostro prodotto perché inquina” durante il Black Friday?).
Secondo Al Ries, “se riesci ad ammettere un aspetto negativo, il potenziale cliente ti riconoscerà un aspetto positivo” – ed è esattamente ciò che è accaduto. I clienti hanno pensato: “Wow, Patagonia è trasparente e sincera, si prende le sue responsabilità; è una marca di cui fidarsi”. L’effetto è stato paradossale: invece di allontanare le persone dall’acquisto, le ha attratte di più, perché volevano premiare un’azienda così diversa dalle altre.
- Coerenza e credibilità: Non c’è una legge esplicita chiamata “coerenza” tra le 22 di Ries e Trout, ma è un principio che traspare da molte regole (focus, leadership, onestà…). Patagonia incarna una coerenza di fondo che è la chiave del suo successo di lungo periodo.
Come scriveva J.B. MacKinnon (giornalista del New Yorker) citato in un’analisi sul “paradosso Patagonia”: una narrazione aziendale ha senso solo finché la gente ci crede, e ciò dipende dal fatto che sia sia vera che percepita come tale. Patagonia può predicare bene (riduci i consumi, rispetta l’ambiente) perché – pur con tutte le contraddizioni insite nel vendere comunque prodotti nuovi – ha dimostrato con i fatti di voler ridurre l’impatto e mettere i valori davanti al profitto immediato.
Sin dal 1985 Patagonia destina l’1% delle vendite annue a iniziative ambientaliste (il programma “1% for the Planet”), pratica che negli anni ha fruttato oltre 200 milioni di dollari donati a cause ambientali.
Nel 1994 ha deciso di eliminare completamente il cotone convenzionale, passando solo a cotone biologico perché aveva scoperto i gravi danni dei pesticidi – ciò fece triplicare i costi di produzione quell’anno, ma l’azienda andò avanti per coerenza.
Nel 2014 ha reso tutta la sua filiera di piumino “Traceable Down” (piume raccolte in modo etico). Ha investito in ricerca per materiali alternativi (es. la gomma naturale Yulex per le mute da surf, riducendo l’80% di emissioni rispetto al neoprene tradizionale e condividendo l’invenzione con i concorrenti).
Ha lanciato il programma Worn Wear per ritirare, riparare e rivendere capi usati Patagonia, incentivando i clienti a non comprare nuovo se non necessario. Questo programma include persino una promozione al contrario: sul sito Patagonia, quando stai per acquistare un indumento nuovo, ti compare un messaggio che ti invita a dare un’occhiata all’usato disponibile – pensa che differenza rispetto ai siti di altri brand, che invece ti bombardano di “prodotti correlati” per farti aggiungere più articoli al carrello!
Patagonia spesso sembra voler frenare la vendita in nome dei suoi valori, un comportamento talmente coerente da risultare incredibile (e proprio per questo crea ammirazione e fedeltà nei clienti). In sintesi, Patagonia ha fatto seguire i fatti alle parole. Questa coerenza totale – mantenuta nei decenni – è ciò che ha permesso al brand di ottenere un posizionamento rispettato e creduto.
Come disse lo stesso fondatore Chouinard:
“Ogni volta che ho preso una decisione che fosse la migliore per il pianeta, ho fatto soldi”.
Un’affermazione che sembra controintuitiva, ma indica che la fiducia e la fedeltà dei clienti (e dunque il successo economico) arrivano quando un’azienda rimane fedele ai propri principi.
Prima di passare oltre, è importante sottolineare un punto chiave su cui insiste Laura da sempre (come Al prima di lei) riguardo al marketing “verde”:
“Essere green di per sé non basta. La maggioranza delle persone non sceglie in base al green. Lo trovano carino, ma poi comprano il brand che piace o il prodotto più economico. Spesso vedono i prodotti ecologici come troppo costosi o meno efficaci”.
Molti marchi famosi hanno provato campagne “green” perché fa tendenza, ma secondo Ries la maggior parte fallisce perché manca autenticità e perché green da solo non è un argomento di vendita forte.
Patagonia NON è “l’eccezione che conferma la regola”: Patagonia è riuscita dove altri hanno fallito perché è nata con quei valori e non li ha mai smentiti.
In termini di Ries & Trout, diremmo che Patagonia non ha dovuto riconvertire un brand esistente in verde (operazione quasi impossibile, che crea percezione di debolezza), bensì ha costruito il posizionamento fin dall’inizio in quel territorio, combinando abilmente il messaggio ecologico con qualità e innovazione.
In altre parole, Patagonia ha creato una marca forte prima di una marca green. Il “green” non vende a meno che l’azienda non nasca green e rimanga coerente in tutto il processo dall’inizio alla fine – e Patagonia è proprio questo caso.
Dove altri brand “anche noi siamo green” appaiono opportunisti, Patagonia risulta credibile perché può mostrare decenni di decisioni controcorrente a riprova della propria serietà.
Riassumendo in chiave Positioning: Patagonia ha occupato nella mente del pubblico uno spazio ben definito – “outdoor etico/sostenibile” – e lo ha fatto con una focalizzazione estrema e continua nel tempo. Questo l’ha differenziata nettamente dai concorrenti, creando un vantaggio competitivo difficilmente colmabile per chiunque altro (non basta lanciare una linea eco-friendly per replicare Patagonia.
Ci vogliono azioni radicali e coerenza totale che pochi sono disposti a mettere in campo). Il risultato è un brand con uno zoccolo duro di clienti quasi “evangelisti”, una reputazione che trascende il prodotto (Patagonia è citata spesso come modello di business responsabile nei libri e corsi, più che come semplice azienda di vestiti) e dunque un posizionamento solidissimo sia in senso assoluto che relativo alla concorrenza.
Marketing non convenzionale: dal messaggio al cliente alla gestione delle vendite
A questo punto, chiarito il perché del posizionamento di Patagonia, vediamo come l’azienda lo mette in pratica sul piano del marketing operativo e della relazione col cliente – in particolare dal punto di vista del direct response e delle tattiche di vendita.
La domanda è: Patagonia utilizza gli strumenti classici del marketing diretto? Raccoglie dati clienti, ha programmi fedeltà, fa promozioni, spinge l’upselling in negozio come fanno molte catene retail? Considerando la fama quasi anti-marketing del brand, potremmo aspettarci che eviti certe pratiche. Andiamo invece a scoprire i fatti:
- Customer data e CRM: Patagonia certamente raccoglie dati dei clienti per finalità di gestione ordini, e-commerce, etc. Se acquisti sul loro sito ti chiedono email, crei un account; se ti iscrivi alla newsletter, entri nel loro database. La differenza sta in come utilizzano questi dati.
Un’azienda tipica di abbigliamento sfrutta il CRM per inviare frequenti email promozionali (“saldi di mezza stagione”, “-20% solo per te”, ecc.) e targettizzare offerte. Patagonia invece invia comunicazioni molto meno focalizzate sulla vendita e più sui contenuti valoriali: newsletter che parlano di cause ambientali, eventi di pulizia spiagge, aggiornamenti sulle campagne di advocacy, ecc.
Certo, non mancano email su nuovi prodotti o su rare promozioni, ma il tono è diverso. Ad esempio, al Black Friday invece di un codice sconto potresti ricevere un’email che dice “Tutto il ricavato di oggi andrà in beneficenza ambientale” (come avvenne nel 2016, quando Patagonia donò 100% delle vendite del Black Friday a gruppi ambientalisti, raccogliendo 10 milioni di dollari – quattro volte più del previsto).
È marketing diretto anche questo, ma di tipo educativo/valoriale. In altre parole, Patagonia usa i dati cliente non tanto per spingere all’acquisto immediato con leve di prezzo, quanto per costruire una relazione e coinvolgere in una comunità di valori.
L’obiettivo delle loro comunicazioni è spesso far sentire il cliente parte di una missione, più che strappargli un ordine in più.
- Programma di fidelizzazione: Qui arriva una sorpresa per chi pensa alle solite tessere punti: Patagonia NON ha un programma fedeltà tradizionale. Niente raccolta punti, niente livelli VIP con sconti speciali, niente “compra X e avrai Y in omaggio al compleanno”.
Semplicemente non esiste una “Patagonia Club Card” per i clienti comuni. (Nota: esiste un Patagonia Pro Program, ma è rivolto a professionisti dell’outdoor e guide, offrendo loro sconti essendo influencer naturali del brand; non è un programma aperto al pubblico generalista).
Eppure, la customer loyalty di Patagonia è tra le più forti al mondo. Come è possibile? Un’analisi condotta da esperti di CRM lo spiega bene: “Patagonia non offre punti. Niente status a livelli. Niente sconti esclusivi. Niente premi di compleanno. E allora perché i clienti continuano a tornare? Perché Patagonia non vende prodotti… vende appartenenza. Non come tattica di marketing, ma come sua autentica stella polare”.
Chi compra Patagonia sente di abbracciare un insieme di valori e uno stile di vita. Si crea una community di persone affini. Il senso di appartenenza a questa comunità – alimentato dalle iniziative del brand – genera fedeltà spontanea, molto più potente di quella comprata con i punti.
Invece di “Se spendi 500€ da noi avrai un buono da 50€” (meccanica tipica dei programmi loyalty), Patagonia dice al cliente: “Unisciti a noi nella nostra missione”. Ad esempio, organizzano eventi di volontariato ambientale locali (i clienti Patagonia spesso vi partecipano), progetti come Patagonia Action Works per attivismo, e continuano a comunicare risultati concreti (es: “abbiamo donato X milioni a difesa di quel fiume”, “abbiamo piantato tot alberi” ecc.).
Tutto ciò fa sentire il cliente parte di qualcosa di più grande del semplice consumo.
- Promozioni e sconti: Patagonia è famosa per non fare quasi mai promozioni aggressive. Nella sua storia ha lanciato messaggi opposti al concetto di sconto: “compra meno, compra usato, ripara ciò che hai”.
Ciò detto, non è che rifiuti completamente qualsiasi dinamica commerciale: ad esempio, a fine stagione ci sono spesso alcuni articoli in saldo sul sito (Web Specials), e occasionalmente l’azienda invia codici sconto via email per eventi particolari.
La differenza è che le promozioni non sono al centro della strategia né frequenti. Patagonia non educa il cliente ad “aspettare i saldi”, anzi tende a minimizzare la percezione di svendite. Anche il linguaggio è diverso: invece di “Affrettati, -50% su tutto!”, Patagonia ha fatto campagne come quella del 2016 dove il messaggio era “Compra oggi e noi daremo il 100% in beneficenza” – il che ha attirato folle, ma per un motivo più nobile del semplice affare.
Dobbiamo anche considerare che i prodotti Patagonia hanno un ciclo vitale lungo e uno scaffale perpetuo: modelli iconici come la giacca Nano Puff o il pile Synchilla Snap-T rimangono a catalogo per anni con poche variazioni. Non c’è bisogno di svuotare magazzino ogni 3 mesi con mega-saldi come i marchi fast fashion perché Patagonia volutamente produce in modo più contenuto e atemporale.
Meno e migliori prodotti, quindi meno pressione a “liquidare”. Inoltre, l’azienda preferisce reindirizzare l’eccesso di inventario verso il canale Worn Wear (vendita usato) piuttosto che spingere troppo l’acquisto nuovo con sconto.
Questa gestione oculata significa che quando Patagonia fa una promozione, è percepita come un bonus raro, non come qualcosa di dovuto.
- Formazione dei dipendenti e approccio alla vendita in negozio: Qui troviamo un contrasto interessante con catene come Foot Locker (citata in questa newsletter alcuni articoli fa, recuperalo se ancora non l’hai letto).
Foot Locker e molti retailer tradizionali addestrano il personale con tecniche di upselling e cross-selling: il commesso deve proporti i calzini in abbinamento alle scarpe, o la protezione impermeabilizzante, e via dicendo, spesso seguendo script.
La vendita è guidata da obiettivi di scontrino medio, pezzi per cliente, ecc. Patagonia, al contrario, adotta un approccio in linea con i suoi valori anti-consumismo. Nei Patagonia store, i commessi sono solitamente appassionati di outdoor, spesso attivisti loro stessi, e l’enfasi è sull’aiutare il cliente a trovare il prodotto giusto se realmente ne ha bisogno.
È noto nell’ambiente retail che Patagonia incoraggia un atteggiamento consulenziale: ad esempio, se un cliente entra con una vecchia giacca rotta, il personale prima suggerirà la riparazione (Patagonia ha Repair Centers e anche eventi in negozio dove insegnano a riparare i capi) piuttosto che spingerlo subito a comprare la nuova collezione.
Questo è l’esatto opposto dell’upselling a ogni costo. Addirittura, se un prodotto Patagonia vecchio è ancora buono ma il cliente vorrebbe qualcosa di nuovo “per sfizio”, non è inusuale che lo staff ricordi la filosofia del brand: “Use it until it’s worn out” (usalo finché è consumato).
In altre aziende, parlare così sarebbe eresia per le vendite… in Patagonia è coerenza.
Ovviamente se il cliente ha bisogno – es. un alpinista che parte per una spedizione e gli serve una giacca specialistica – il personale lo guiderà sul prodotto più adatto, ma sempre puntando alla soddisfazione d’uso a lungo termine più che al fatturato immediato.
Questa cultura viene dall’alto: Chouinard nel suo libro Let My People Go Surfing racconta di come detesti i venditori aggressivi e abbia voluto negozi che fossero luoghi di comunità e scambio di conoscenze, non “trappole per consumatori”.
Inoltre, i dipendenti Patagonia vengono formati anche sui temi ambientali e sociali, per poter parlare con cognizione di causa al cliente delle iniziative del brand, dei materiali usati, di perché un certo capo costa di più (es. cotone organico Fair Trade ecc.).
In tal modo, il commesso Patagonia non è un semplice venditore ma un ambasciatore del brand e dei suoi valori. L’effetto su chi entra in contatto con questo tipo di servizio è potente: il cliente si fida, percepisce onestà e competenza, quindi è più propenso a restare fedele nel tempo.
È il concetto di Trusted Advisor di Jay Abraham applicato al retail: ti consiglio come farebbe un amico esperto, anche a costo di venderti meno pezzi. Paradossalmente, questa sincerità spesso porta il cliente a rispettare il marchio e magari a spendere di più lungo l’arco di anni, perché si affeziona e acquista solo Patagonia quando davvero gli serve qualcosa.
- Direct response classico (pubblicità e call-to-action): Patagonia non investe molto in advertising tradizionale, specialmente se paragonata a big del settore. Ad esempio, difficilmente vedrete uno spot TV Patagonia o banner ovunque. Il grosso del suo marketing sono i contenuti e il passaparola.
L’azienda pubblica moltissimi racconti (sul suo sito, in cataloghi stampati che sono veri magazine, e documentari video) riguardanti spedizioni, cause ambientaliste, persone ispiranti – tutte storie che rafforzano l’identità del brand senza “vendere” esplicitamente. Questo storytelling autentico genera una risposta diretta nei clienti: li motiva a supportare il brand, a diffondere il verbo, a sentirsi parte.
È un modo di fare direct marketing meno misurabile rispetto a un classico volantino “-20% se compri entro domenica”, ma nel caso di Patagonia è efficace nel creare un seguito quasi cult.
Un altro aspetto di direct response sono i cataloghi e il sito: Patagonia fu tra le prime aziende del settore a vendere direttamente al consumatore per corrispondenza e poi online, saltando intermediari, proprio per mantenere un contatto diretto con la clientela e controllare l’esperienza.
Nel catalogo inviato a casa (tutt’oggi ne stampano alcuni ogni anno) spesso ci sono pagine dedicate alle politiche ambientali, consigli per la manutenzione dei capi, ecc., non solo foto prodotti e prezzi. È una comunicazione educativa che crea valore per il lettore. Anche questa è una scelta controcorrente: rinunciare a qualche pagina di prodotti vendibili per fare cultura aziendale.
Ma Patagonia giustamente vede il ROI non nell’immediato numero di ordini per catalogo, bensì nella costruzione di un brand che i clienti amano.
E i numeri le danno ragione: nonostante marketing non convenzionale, le vendite sono cresciute costantemente (dal mezzo miliardo scarso del 2010 ai $1,5 mld del 2022).
- Uso della community e del direct response “inverso”: Un caso emblematico: quando nel 2017 il governo USA decise di ridurre l’area protetta di Bears Ears National Monument, Patagonia trasformò la homepage del suo sito in una schermata nera con la scritta a tutto schermo “The President Stole Your Land” (“Il Presidente ha rubato la tua terra”), esortando i visitatori a agire e a supportare la causa legale contro quella decisione. Questo è marketing?
Di certo lo è nel senso che comunica fortemente i valori aziendali, rischiando anche di polarizzare parte del pubblico (alcuni clienti conservatori magari non hanno apprezzato l’attacco frontale a Trump). Ma Patagonia non si è curata di poter perdere qualche vendita: coerente con la legge della categoria di Ries, ha preferito rafforzare il legame con il suo segmento target (i consumatori ambientalisti e socialmente impegnati), anche a costo di scontentarne altri.
Diciamo un po’ il contrario di quello che ha fatto Musk quando si è schierato con la destra Repubblicana “tradendo” il suo elettorato radical-chic da sinistra DEM (e le cose hanno iniziato ad andare male per Tesla da allora)
Quella campagna ha generato una risposta diretta sotto forma di mobilitazione: migliaia di persone hanno firmato petizioni, si sono unite al movimento, molte hanno elogiato Patagonia per aver preso posizione netta.
E, incidentalmente, ha anche portato nuovi clienti che si identificavano con quei valori e hanno scelto di “votare col portafoglio” premiando Patagonia rispetto ad altri brand apolitici. È un esempio interessante e quasi unico nel suo genere di un vero e proprio direct response non commerciale: l’azienda chiama all’azione su un tema valoriale coerente con il suo positioning, e questo indirettamente consolida il business.
In definitiva, Patagonia ha “riscritto il concetto di marketing diretto”: dal classico “compra subito, ecco lo sconto” al “agisci insieme a noi, condividi la nostra missione”. Il risultato finale – vendite e profitti – arriva comunque, ma come conseguenza dell’allineamento ideale tra brand e cliente, non come semplice transazione economica.
Risultati: il successo economico di un’azienda attivista
A scanso di equivoci: Patagonia pur facendo tutte queste scelte “anti-marketing tradizionale” è profittevole e in crescita. Spesso si pensa che impegnarsi nel sociale o rinunciare a vendite facili significhi perdere soldi, ma Patagonia smentisce questo pregiudizio. Qualche numero per contestualizzare:
- Nel 2012, subito dopo la campagna “Don’t Buy This Jacket”, i ricavi sono saliti a 543 milioni di dollari (+30%), nonostante la crisi e nonostante quel Black Friday avessero detto ai clienti di pensarci due volte prima di comprare. Nei due anni successivi la crescita è continuata (altri +5% e così via). Segno che la presa di posizione etica aveva rafforzato l’attrattività del brand invece di danneggiarla.
- 2017: Patagonia raggiunge 1 miliardo di $ di fatturato. Un traguardo importante, ottenuto senza diventare pubblica (l’azienda rimane privata, della famiglia Chouinard, fino al 2022). In quello stesso anno si schiera apertamente contro politiche governative anti-ecologiche e avvia cause legali pro-ambiente, mostrando che non teme ripercussioni neanche su mercati importanti come gli USA.
- 2022: fatturato stimato 1,5 miliardi di $ con profitti attorno ai 100 milioni $ l’anno. L’azienda viene valutata circa 3 miliardi dal mercato. Chouinard decide di cedere la proprietà: il 100% delle azioni con diritto di voto va a un trust (Patagonia Purpose Trust) incaricato di assicurare che il business resti fedele ai valori, e il 100% delle azioni senza voto va a Holdfast Collective, un’organizzazione non-profit che riceverà il 100% dei profitti annuali non reinvestiti, da destinare a cause ambientali.
In pratica, ogni anno Patagonia genererà decine di milioni per finanziare la lotta al cambiamento climatico, senza distribuire dividendi a proprietari privati. È la mossa finale che cementa il posizionamento del brand come “azienda al servizio del pianeta”.
Il CEO Ryan Gellert la chiama giustamente una situazione paradossale: ora lui deve far prosperare un’azienda per dare più soldi possibile alla sua unica azionista: Madre Terra, pur sapendo che produrre e vendere abbigliamento ha comunque un impatto sul pianeta.
Questa tensione interna (Patagonia Paradox) è apertamente riconosciuta dal management, che infatti sta tentando ulteriormente di cambiare modello: spingere sul mercato dell’usato (resale) invece che sulla crescita del nuovo, incoraggiare un consumo più lento. Gellert ha dichiarato: “C’è una tensione attorno alla crescita… il più grande trucco di magia nel business è capire come avere impatto e successo restando fermi”.
Non significa che Patagonia voglia rimpicciolirsi o smettere di fare profitti (hanno chiarito che non perseguono la “decrescita” radicale), ma sicuramente non hanno l’ossessione di “crescere del 20% ogni anno a tutti i costi” tipica di aziende quotate.
Possono permettersi di crescere lentamente o stabilmente, finché questo garantisce sostenibilità finanziaria e massimizza l’efficacia della loro missione.
- Relativamente ai competitor, come va Patagonia? Molto bene. Mentre tanti retailer tradizionali di abbigliamento outdoor hanno sofferto negli ultimi anni (basti pensare a colossi come Columbia o VF Corporation – proprietaria di The North Face – che hanno visto fluttuazioni e dipendenza dai trend), Patagonia ha mantenuto margini di profitto elevati (nel 2022 è stata +10%, sopra la media di settore) e un tasso di crescita annuo attorno al 10% costante.
Business analyst sottolineano che la crescita di Patagonia è particolarmente rapida se paragonata ai competitor diretti, benché ottenuta seguendo principi quasi opposti a quelli comuni. Inoltre, Patagonia vanta un patrimonio di marca e reputazione che non ha prezzo: in un’epoca in cui i consumatori (soprattutto i giovani) sono sempre più attenti all’etica, avere una credibilità così alta è un moat competitivo enorme.
Molti clienti pagano volentieri prezzi più alti per Patagonia perché sanno che una parte va in beneficenza (stessa cosa che succedeva per le iniziative falso-benefiche della Ferragni finché non è stata scoperta), sanno che l’azienda tratta bene i dipendenti (è una B-Corp certificata, con benefit notevoli per lo staff, come asili nido in sede, ecc.), sanno che se il prodotto si rompe verrà riparato o sostituito senza problemi.
In breve, pagano volentieri un valore aggiunto che va oltre il prodotto materiale.
Un ultimo aspetto: secondo Ries & Trout, “il successo spesso porta all’arroganza e alla rovina se si rompono le leggi del marketing”. Patagonia dovrà stare attenta a non sedersi sugli allori.
Finora ha evitato errori classici tipo l’eccesso di estensione di linea: ha allargato l’offerta con cautela (ad esempio lanciando Patagonia Provisions, una linea marginalissima di cibi sostenibili, che però è coerente con il tema ambientale e lo stile di vita outdoor che con la voglia di fare numeri davvero) e non ha snaturato il core brand. Ogni mossa è ponderata per allineamento con la mission.
Se domani Patagonia facesse una linea di abiti eleganti da sera o si mettesse a vendere automobili, romperebbe la coerenza e confonderebbe il consumatore – cosa che sicuramente non faranno. Chouinard una volta scherzò dicendo: “Quando morirò e andrò all’inferno, il diavolo mi farà direttore marketing di una azienda di bibite, a vendere un prodotto che non serve a nessuno ed è uguale a quello dei concorrenti”.
Era il suo modo di dire che Patagonia vende solo ciò che ritiene utile e diverso. Finché manterranno questa filosofia, il posizionamento rimarrà solido.
Conclusione: il caso Patagonia e il (non) segreto del brand positioning coerente
La storia di Patagonia dimostra che posizionamento e marketing coerente pagano nel lungo termine. Quello che Yvon Chouinard avviò come “esperimento di business responsabile” 50 anni fa è oggi un’azienda prospera che ha riscritto le regole del marketing nel suo settore.
Patagonia ha applicato molti principi delle teorie di Al Ries spesso prima ancora di conoscerle: focalizzazione, differenziazione netta, autenticità, e occupare una posizione libera nella mente del cliente (quella dell’azienda “green” credibile).
Allo stesso tempo, ha infranto i dogmi del marketing tradizionale dimostrando che un’altra via è possibile: meno pubblicità, più sostanza; meno vendite rapide, più relazione duratura; meno “il cliente ha sempre ragione”, più “il cliente può diventare un alleato in qualcosa di importante”.
Nel mio classico “francese” io direi che Patagonia ha fatto marketing con le palle: ha avuto il coraggio di andare controcorrente, di rinunciare alle scorciatoie (sconti facili, espansione scriteriata, etc.) e di educare i propri clienti invece di blandirli.
Ha costruito una tribù di clienti che non comprano solo un pile o una giacca, ma ciò che quel pile rappresenta. E quando crei questo livello di fiducia e appartenenza, non hai più bisogno di svendite o manipolazioni – i clienti tornano perché credono in te, non perché hai la promozione del giorno.
Infine, ri-chiariamo che se un’azienda non fa stupido “green-washing” ma fa dell’ecologia la sua ragion d’essere autentica e lo unisce a un prodotto eccellente, allora sì che vende.
Vende oggi e venderà domani, perché sta cavalcando un trend di cambiamento culturale con credibilità. Non è facile: servono decenni di coerenza, servono scelte coraggiose (a volte anteporre i valori al profitto immediato).
Patagonia ci è riuscita, e i concorrenti che magari in passato l’avranno derisa per il suo idealismo ora cercano di inseguirla su questo terreno, spesso senza successo perché manca loro quella storia credibile alle spalle.
Patagonia, in definitiva, ha dimostrato che fare business in modo diverso non solo è possibile, ma può portare a un vantaggio competitivo duraturo. Ha posizionato il suo brand non solo in un segmento di mercato, ma in cima alla scala dei valori di molti consumatori.
E da lì, finché rimarrà fedele a sé stessa, difficilmente qualcuno riuscirà a scalzarla. Come recita oggi il suo sito: “We’re in business to save our home planet” (Facciamo business per salvare il nostro pianeta) – non è uno slogan vuoto, è la sintesi perfetta di un posizionamento unico.
E ironicamente (o poeticamente) è anche la fonte del suo successo di mercato. Patagonia insegna che marketing e ideali possono andare a braccetto, purché il posizionamento sia chiaro e l’esecuzione coerente in ogni singola scelta.
In un mondo pieno di marchi che proclamano valori a cui non tengono, Patagonia risplende come l’azienda che ha sempre fatto ciò che dice. E i clienti, a quanto pare, l’hanno posizionata nei loro cuori – oltre che nei portafogli. Chapeau.