Non cadere come Coca Cola nella Trappola della "Terra di Nessuno" nel Marketing
Quando essere né carne né pesce é un disastro aziendale.
Nel mondo del marketing e del business c’è un territorio insidioso in cui molte aziende, grandi e piccole, finiscono per perdersi: quella che Al Ries chiamava la “terra di nessuno”.
Questa espressione, mutuata dal gergo bellico per indicare l'area tra due fronti opposti, descrive perfettamente la situazione di un brand o di un prodotto che si trova a metà strada tra due categorie, senza appartenere con chiarezza né all'una né all'altra. In altre parole, è quel pericoloso limbo in cui un’azienda cerca di essere tutto per tutti e finisce per non essere niente per nessuno.
Già nei suoi primi libri Al Ries metteva in guardia le imprese da questo errore strategico, e il suo avvertimento risuona oggi più attuale che mai. L’evoluzione dei mercati e l’avvento di nuovi settori – dal fintech al food delivery, fino all’e-commerce locale – hanno moltiplicato le tentazioni di ibridazione e compromesso.
Tuttavia, i principi fondamentali del posizionamento sono rimasti invariati: per conquistare la mente dei consumatori bisogna occupare una posizione chiara, non un indefinito punto a metà strada.
In questo articolo ripercorriamo la logica della “trappola della terra di nessuno” e la attualizziamo con esempi moderni, dai casi internazionali ai fenomeni emergenti italiani.
Vedremo clamorosi fallimenti di brand blasonati che hanno inseguito due lepri senza prenderne nessuna, e al contempo faremo un confronto con chi ha scelto la specializzazione estrema ottenendo un successo travolgente.
L'obiettivo è quello di fornire una bussola strategica chiara:
Meglio essere leader in una nicchia definita che perdersi nel vasto territorio di nessuno.
Che cos’è la “terra di nessuno” nel marketing?
Immaginate di entrare in un ristorante che cerca di essere sia un fast food economico sia un locale di alta cucina raffinata. Il risultato? Menù confuso, clienti spiazzati e nessuno pienamente soddisfatto.
Ecco, in ambito aziendale la terra di nessuno è proprio questo: il punto in cui un marchio prova a collocarsi tra due posizionamenti opposti, finendo per non rappresentare chiaramente né l'uno né l'altro.
Noi italiani abbiamo un detto calzante per tali situazioni: “né carne né pesce”.
Un prodotto né abbastanza economico da attrarre chi cerca convenienza, né sufficientemente premium da convincere chi vuole la massima qualità è, appunto, né carne né pesce — e quindi destinato a una debolezza competitiva.
Dal punto di vista del marketing, la trappola della terra di nessuno è una violazione del principio cardine del posizionamento: essere primi nella mente per qualcosa di specifico.
Ogni categoria nella mente dei consumatori ha una scala gerarchica, con marchi associati a precise caratteristiche. Se un’azienda non occupa chiaramente un gradino definito su quella scala, rischia di scivolare nell’oblio.
Al Ries e Jack Trout lo spiegarono decenni fa con il concetto di focalizzazione: un brand deve possedere una parola o un concetto nella mente del pubblico (ad esempio, sicurezza per Volvo nelle auto, o velocità per Ferrari).
Quando invece si cerca di possedere due concetti contemporaneamente – magari tra loro incompatibili – il risultato è che nessuno dei due attecchisce veramente. Il brand diventa sfocato, privo di identità forte e incapace di distinguersi dai concorrenti.
La “terra di nessuno” si manifesta spesso quando un’azienda tenta un compromesso per allargare il proprio mercato. Può accadere in diversi modi, ad esempio:
Un produttore di beni di lusso lancia una linea più economica per attirare clienti mainstream, ma così facendo diluisce l’esclusività percepita.
Al contrario, un marchio popolare prova a spostarsi verso l’alta gamma per aumentare i margini, senza però raggiungere gli standard né conquistare il prestigio dei veri brand premium.
Un prodotto innovativo cerca di combinare due categorie esistenti sperando di sommarne i vantaggi, ma finisce per ereditarne solo i difetti, non soddisfacendo pienamente né gli utenti dell’una né dell’altra.
In tutte queste situazioni, l’intento di fondo è comprensibile: nessuno vuole escludere fasce di clientela.
La dirigenza pensa: perché limitarsi a una nicchia quando potremmo abbracciare un pubblico più vasto? Tuttavia, questa logica ignora un fatto cruciale: i consumatori scelgono un prodotto per un motivo specifico, e difficilmente quello stesso prodotto può incarnare due promesse differenti senza generare scetticismo.
Tentare di accontentare tutti spesso significa non entusiasmare nessuno. Chi desidera una utilitaria efficiente e a basso costo guarderà con sospetto un modello che costa di più perché infarcito di optional di lusso; chi invece cerca il top di gamma non vorrà compromessi o versioni “annacquate” del prodotto d’eccellenza.
Grandi flop moderni: quando il compromesso non paga
Per capire come la terra di nessuno possa condannare anche aziende blasonate, basta guardare alcuni casi emblematici degli ultimi anni.
Si tratta di prodotti lanciati da colossi del mercato, con budget marketing enormi e brand già affermati, che tuttavia hanno fallito proprio perché frutto di un compromesso tra due posizionamenti. Analizziamone alcuni nel dettaglio.
Coca-Cola Life: né classica né dietetica
Tra i casi più citati di recente c’è Coca-Cola Life, il tentativo della Coca-Cola di inserirsi in un segmento intermedio tra la cola tradizionale e quella dietetica. Lanciata nel 2014 in vari mercati, si presentava con una bottiglia dall’etichetta verde e una formula edulcorata con estratto di stevia per ridurre le calorie.
In sostanza prometteva il gusto della Coca-Cola classica ma con meno zucchero, per attirare i consumatori attenti alla linea che non amavano le versioni zero calorie come Diet Coke o Coke Zero.
Per darti un'idea precisa, posso fornirti un confronto approssimativo (i valori esatti possono variare leggermente a seconda del mercato e del periodo specifico del prodotto):
Coca-Cola Classica (Original Taste): Circa 42 calorie per 100ml.
Coca-Cola Life: Circa 27 calorie per 100ml.
Coca-Cola Zero (Zero Sugar): Meno di 0.5 calorie per 100ml (praticamente zero calorie e dichiarata come tale).
Come puoi vedere, Coca-Cola Life si posizionava a metà strada tra la Coca-Cola classica e la Coca-Cola Zero in termini di calorie. Offriva una riduzione calorica significativa rispetto alla versione classica, ma non arrivava ad essere una bevanda completamente priva di calorie come la Coca-Cola Zero.
Sulla carta poteva sembrare un’idea vincente: perché scegliere tra il sapore pieno e le calorie ridotte, quando si può avere un po’ dell’uno e un po’ dell’altro?
Purtroppo per Coca-Cola, i consumatori non l’hanno vista allo stesso modo.
Coca-Cola Life ha faticato a trovare un pubblico fedele. Chi voleva concedersi una soda tradizionale continuava a preferire la ricetta originale con tutto il suo zucchero; chi puntava a eliminare lo zucchero optava comunque per le varianti totalmente dietetiche già esistenti.
Il risultato è stato che la versione Life occupava quell’ambiguo spazio di mezza dolcezza che non soddisfaceva veramente nessuno dei due gruppi.
Già nel 2015, solo un anno dopo il lancio nel Regno Unito, Coca-Cola Life aveva raggiunto appena l’1,2% delle vendite di Coca-Cola nel paese.
Nonostante ulteriori sforzi di marketing e anche una riformulazione per tagliare ancora di più lo zucchero, il prodotto non decollava. Come hanno sottolineato le analisi di settore, la formulazione “a metà” non offriva alcun vantaggio chiaro rispetto alle opzioni già sul mercato.
In altre parole, non risolveva un reale bisogno dei consumatori.
Alla fine Coca-Cola ha dovuto ammettere la sconfitta: entro il 2017 la Life è stata ritirata da molti mercati, Italia compresa, a causa delle vendite deludenti.
L'azienda che per decenni è stata maestra nel marketing ha riscoperto a proprie spese un vecchio adagio: se hai già una Coca-Cola classica e una Zero, nessuno sentiva il bisogno di una via di mezzo.
Facebook Portal: un dispositivo né tablet né smart speaker
Un altro caso interessante di “terra di nessuno” in ambito tecnologico è quello del Facebook Portal (poi rinominato Meta Portal). Si tratta di uno schermo intelligente lanciato nel 2018 da Facebook, concepito principalmente per le videochiamate tramite Messenger e WhatsApp.
In un periodo in cui gli assistenti vocali e gli smart display stavano prendendo piede (basti pensare ad Amazon Echo Show o Google Nest Hub), Facebook decise di entrare nel mercato con un proprio dispositivo casalingo.
Il posizionamento di Portal però è stato ambiguo fin dall’inizio. Non era un tablet tradizionale – le sue funzionalità erano molto più limitate rispetto a un iPad, essendo pensato quasi esclusivamente per videochat e poche altre app – ma non era nemmeno un semplice smart speaker a basso costo, dato che includeva uno schermo e una telecamera avanzata.
In pratica, un ibrido: né pieno tablet multimediale né semplice altoparlante intelligente, bensì qualcosa in mezzo.
Facebook cercava di puntare tutto sull’idea di mettere in salotto un apparecchio dedicato a chiamare parenti e amici, magari sfruttando l'ampia rete social dell'azienda. Ma questa idea non ha mai veramente sfondato.
Due problemi hanno afflitto Portal.
Il primo è la fiducia: già nel 2018 la reputazione di Facebook in tema di privacy era ai minimi storici, reduce dallo scandalo Cambridge Analytica. Molti consumatori trovavano inquietante l’idea di installare in casa propria una videocamera sempre attiva targata Facebook, temendo intrusioni nella privacy.
Il secondo problema è la mancanza di unicità: come dispositivo per videochiamate, Portal faceva bene il suo lavoro, ma offriva poco altro. Chi voleva un ecosistema smart più ampio optava per i device Amazon o Google, che oltre alle videochiamate offrivano assistenti vocali versatili, streaming di contenuti, integrazione con la domotica ecc.
Chi invece desiderava fare videochiamate con i familiari poteva già utilizzare smartphone, tablet o PC che già possedeva, senza bisogno di un apparecchio dedicato.
Il risultato? Le vendite di Facebook Portal sono state modeste sin dall’inizio. Le stime parlavano di pochi “centinaia di migliaia” di unità vendute all’anno, ben lontane dalle cifre a sette zeri dei concorrenti.
A un anno dal lancio, i dispositivi Portal rappresentavano appena lo 0,6% del mercato degli smart speaker con schermo, un segmento dominato da Amazon Echo Show e altri.
In alcuni grandi negozi di elettronica, i commessi riportavano di averne venduti “pochissimi, quasi nessuno” nonostante l’esposizione sugli scaffali.
Nel 2021 la linea Portal ha provato a riposizionarsi verso un uso più business (videoconferenze per lo smart working), ma anche in quel campo la concorrenza di tablet e laptop era troppo forte. Nel 2022 Meta ha annunciato lo stop alla vendita di Portal per i consumatori.
Ancora una volta, l’insegnamento è chiaro: un prodotto senza una collocazione netta – per di più offerto da un brand fuori contesto (Facebook non era certo noto come produttore hardware di successo) – difficilmente può prevalere.
Uber Eats: un modello a metà strada
Nel settore dei servizi digitali un esempio di potenziale trappola della terra di nessuno lo possiamo vedere in Uber Eats e nella sua evoluzione come piattaforma. Uber Eats è nata come estensione di Uber nel campo del food delivery, inizialmente con un modello molto chiaro: consegnare pasti dai ristoranti agli utenti tramite rider indipendenti, sull’onda del successo di Uber nel ride sharing.
Col tempo, però, la strategia di Uber Eats si è fatta più complessa. Da un lato doveva fronteggiare concorrenti focalizzati su modelli differenti: Just Eat (o in altri paesi piattaforme simili) operava come marketplace puro, limitandosi a fare da intermediario tra utente e ristoranti che gestivano in proprio le consegne; dall’altro, attori come Deliveroo o Glovo investivano pesantemente in reti di rider e in accordi esclusivi con ristoranti di alto livello, puntando su un servizio di consegna rapido e affidabile come valore aggiunto.
Uber Eats si è trovata quindi a metà: era nata come servizio di consegna stile Deliveroo, ma cercava al contempo di ampliare l’offerta di ristoranti come un marketplace alla Just Eat, includendo anche locali che avrebbero usato mezzi propri per recapitare gli ordini.
Questa doppia anima poteva avere senso per crescere più in fretta, ma ha presentato anche sfide notevoli. Gestire un modello ibrido significa dover soddisfare due tipi di aspettative: chi ordina da Uber Eats non sa se il cibo gli verrà portato da un corriere Uber in pochi minuti (con tracciamento nell'app e standard controllati), oppure se arriverà con tempi e modalità del ristorante stesso, magari più lenti e imprevedibili.
L'esperienza utente rischia di diventare meno coerente. Inoltre, cercare di essere sia un marketplace di ampia scelta, sia un servizio logistico di qualità, può diluire l'efficacia in entrambi i campi.
Non a caso, nel mercato del food delivery mondiale si sono visti diversi aggiustamenti: Uber Eats ha ceduto le sue attività in paesi dove altri operatori specializzati dominavano (ad esempio, ha lasciato la Cina già nel 2016 e più di recente ha abbandonato l’India nel 2020), preferendo accordi con i rivali locali.
In effetti, nel 2020 Uber ha venduto le attività di Eats in India al concorrente Zomato dopo aver faticato a guadagnare quote significative in quel Paese.
Lo stesso management di Uber dichiarò di voler uscire dai mercati dove la piattaforma non ha prospettive di diventare leader.
Parallelamente, piattaforme come Just Eat Takeaway (che controlla Just Eat) hanno dovuto introdurre un proprio servizio di consegna con rider per rimanere competitive rispetto a chi offriva anche la logistica.
Ad oggi Uber Eats continua ad essere un player importante, ma la ricerca di un equilibrio tra modello di piattaforma aperta e servizio controllato non è priva di ostacoli.
Cercando di presidiare tutta la filiera (dalla presa dell’ordine alla consegna), Uber ha dovuto affrontare costi altissimi e problemi di sostenibilità economica, tanto che la redditività è arrivata molto tardi rispetto al volume d'affari generato.
Questo esempio mostra come anche nelle piattaforme digitali il voler essere “di mezzo” tra due modelli distinti può mettere a rischio la chiarezza del proprio valore. In altre parole: è meglio essere riconosciuti chiaramente o come semplice aggregatore di offerte o come servizio premium di consegna, piuttosto che confondere utenti e partner essendo un po’ entrambe le cose.
Le aziende che hanno avuto successo duraturo nel food delivery spesso hanno scelto un posizionamento netto e vi si sono attenute, mentre chi ha cambiato rotta più volte ha dovuto faticare per ritrovare un’identità forte agli occhi del pubblico.
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Specializzazione vincente: i casi che confermano la regola
Se la “terra di nessuno” è un campo minato, esiste un sentiero sicuro che porta al successo: la specializzazione. Al Ries lo ha ribadito in più occasioni con la sua celebre legge del focus. Nel libro The 22 Immutable Laws of Branding (che se avete pazienza sto traducendo al fine di pubblicarlo per voi in italiano) viene enunciato il principio in modo chiaro: «A brand becomes stronger when you narrow its focus», ovvero un marchio diventa più forte quando restringe il suo raggio d’azione.
In termini pratici, concentrarsi su una singola categoria o su un singolo attributo distintivo permette di diventare i migliori in quello, senza distrazioni.
Un esempio citato è quello del fondatore di Subway, che costruì un impero dei fast food puntando solo sui submarine sandwich, i panini lunghi: facendo solo quelli, riuscì a perfezionare ogni aspetto dell’operatività e del prodotto.
E quando fai una cosa sola – ma fatta benissimo – finisci per dominare nella mente del consumatore per quella specifica offerta.
Numerosi esempi, anche molto recenti e vicini a noi, confermano quanto sia efficace il focus.
In Italia abbiamo assistito all’ascesa di diverse realtà imprenditoriali che hanno fatto del mono-prodotto o della specializzazione spinta la chiave del loro successo, persino in settori tradizionalmente considerati difficili come la ristorazione.
Ecco alcuni casi emblematici di catene focalizzate che sono cresciute rapidamente proprio grazie a un’identità di offerta chiarissima:
Pizzeria Spontini – Nata a Milano nel 1953 come un piccolo locale che vendeva solo tranci di pizza al taglio con pomodoro e mozzarella.
Il suo fondatore scelse di proporre un unico tipo di pizza (la famosa pizza alta al trancio) e mantenne quel focus per decenni. Il risultato è un marchio divenuto sinonimo di qualità in quella specifica specialità, tanto da espandersi con oltre 30 punti vendita tra Italia ed estero.
La forza del concetto di monoprodotto si vede ancora oggi: Spontini continua a basare il suo successo sull’alta specializzazione e sulla coerenza dell’offerta, dimostrando come concentrarsi su un solo piatto possa pagare in termini di reputazione e affari.All’Antico Vinaio – Da un’antica piccola bottega fiorentina a impero dello street food internazionale, tutto costruito attorno a una semplice schiacciata ripiena.
La famiglia Mazzanti ha trasformato la tradizione toscana della focaccia farcita in un brand globale. Nei video sui social si vedono regolarmente file lunghissime di clienti entusiasti davanti ai negozi, sia in Italia che all’estero.
L’apertura di Los Angeles, ad esempio, è andata sold-out per due settimane e ha segnato la tredicesima inaugurazione internazionale del marchio.
Tutto questo senza mai tradire la formula originaria: offrire la migliore schiacciata possibile, con ingredienti di qualità e ricette tradizionali, senza disperdersi in altri cibi.
Oggi All’Antico Vinaio conta locali nelle principali città italiane (Firenze, Roma, Milano, Napoli…) e anche a New York, Los Angeles e oltre, a testimonianza di quanto un concept focalizzato possa scalare con successo.Capatoast – Prima toasteria in Italia dedicata esclusivamente al toast. Quando i fratelli Castaldo aprirono il primo punto vendita a Napoli nel 2014 puntando su questo panino semplice e universale, molti erano scettici.
Eppure la formula del toast “formato mega”, farcito in modo gourmet e servito in un locale giovane, si rivelò vincente fin da subito. Nel primo anno il punto vendita del Vomero registrò incassi record e code di clienti curiosi di provare l’esperienza monoprodotto.
Oggi Capatoast è un franchising in espansione che attrae investitori e conta decine di negozi in varie città, tutti fedeli all’idea originale: il toast come protagonista assoluto.Rom’Antica – Questa catena relativamente recente ha scommesso tutto su un prodotto tipico romano: la pizza al taglio “scrocchiarella” (pizza in teglia bassa e croccante).
Nata poco prima della pandemia, ha saputo intercettare il trend dello street food di qualità portando la pizza alla romana in tutta Italia, con un format replicabile. In pochi anni è arrivata ad aprire oltre 50 locali in diverse regioni, puntando su un menu ristretto ma eccellente: pizze alla pala quadrate, con farciture tradizionali o creative, servite velocemente e a prezzi accessibili.
Il fatto di proporre esclusivamente quel tipo di pizza (senza confondersi con pizzerie napoletane o ristoranti generici) ha permesso a Rom’Antica di creare un’identità forte e riconoscibile.
I clienti sanno esattamente cosa aspettarsi entrando: una pizza romana autentica, consistente e croccante. E i numeri confermano la bontà della scelta strategica.
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La lezione della ristorazione focalizzata vale anche per le startup tecnologiche e le imprese digitali.
Nel settore fintech, ad esempio, spicca la storia di Satispay, oggi considerata una delle scale-up italiane di maggior successo. Sin dagli inizi Satispay ha avuto un obiettivo chiarissimo: creare un sistema di pagamento digitale semplice, immediato e indipendente dai circuiti delle carte di credito tradizionali.
Con questa proposizione molto focalizzata – pagamenti via app collegati al conto bancario, per piccoli importi quotidiani – l’azienda ha conquistato milioni di utenti.
Oggi conta oltre 5 milioni di consumatori iscritti e 380.000 esercizi commerciali convenzionati, numeri che l’hanno portata allo status di “unicorno” (startup valutata oltre un miliardo di euro).
Solo in seguito Satispay ha ampliato gradualmente i servizi (ricariche telefoniche, pagamento di bollettini, ecc.), ma sempre mantenendo il core ben delineato. Questo focus iniziale le ha consentito di farsi un nome come la app dei pagamenti smart, lasciando magari ad altri fintech il compito di inseguire obiettivi più ampi come la banca digitale a 360°.
Guardando al food delivery o all’e-commerce locale, troviamo esempi analoghi. La startup Cortilia, fondata nel 2011, ha avuto successo perché si è ritagliata un segmento preciso nel mercato della spesa online: i prodotti agricoli freschi a filiera corta, consegnati a domicilio.
Invece di voler competere direttamente con i supermercati online generici o con Amazon, Cortilia ha puntato tutto sulla genuinità e la selezione di produttori locali, diventando sinonimo di qualità contadina a portata di clic .
Questa strategia focalizzata ha pagato: nel 2020 l’azienda ha fatturato 33 milioni di euro (in crescita del 175% sull’anno precedente) e ha attratto investimenti per espandersi, mantenendo però sempre chiaro il proprio valore differenziante: portare sulla tavola dei clienti la campagna, non semplicemente delle generiche “derrate alimentari”.
Allo stesso modo altre piattaforme locali hanno trovato spazio concentrandosi su nicchie specifiche – ad esempio chi fa consegne ultra-rapide di farmaci, o chi costruisce un marketplace solo per negozi di quartiere – senza lanciarsi in offerte onnivore che le metterebbero in rotta di collisione frontale con giganti globali.
Insomma, sia nei settori più tradizionali che in quelli innovativi, la formula si ripete: specializzarsi per eccellere. Ogni volta che un’azienda si è distinta concentrandosi su un singolo concept forte, il mercato l’ha premiata. Non è un caso, ed è qui che vediamo all’opera il principio opposto alla terra di nessuno: quello del posizionamento vincente in una terra ben definita.
Conclusione: scegliere dove combattere
In un mercato sempre più competitivo e frammentato, la tentazione di posizionarsi a metà per attirare tutti può sembrare forte. Ma la lezione che ci arriva sia dai fiaschi clamorosi che dai successi risonanti è univoca: bisogna scegliere il proprio campo di battaglia.
Una volta scelto, occorre presidiare quel territorio con coerenza e determinazione, senza cedere al canto delle sirene che invogliano ad allargarsi indiscriminatamente.
Come insegnava Al Ries, la mente del consumatore premia la chiarezza. Un brand chiaro, focalizzato, è come un faro che illumina la sua rotta: i clienti lo riconoscono immediatamente per quello che offre di unico.
Al contrario, un brand che vaga nella terra di nessuno rischia di restare al buio, ignorato perché privo di un'identità distinguibile. Meglio essere leader in una nicchia specifica che inseguitore confuso su un mercato vasto. Meglio avere pochi fan entusiasti che tanti clienti tiepidi e disorientati.
In conclusione, non cadete nella trappola della terra di nessuno: ogni volta che vi troverete a decidere se aggiungere quell’opzione “per non perdere clienti”, o se lanciare un prodotto jolly che vuole piacere a due segmenti divergenti, pensateci due volte.
Forse è più saggio rinunciare a qualcosa oggi, per costruire un posizionamento solido e incontrastato domani. Le storie di Coca-Cola Life e Facebook Portal rimangono moniti di cosa accade quando si cerca di essere né carne né pesce; quelle di Spontini, All’Antico Vinaio, Satispay e tanti altri ricordano i frutti che si raccolgono scegliendo di essere una cosa sola, ma fatta al massimo.
In un’epoca in cui i consumatori sono bombardati da offerte e messaggi, la chiarezza è potere. Siate speciali in qualcosa, e il mercato vi noterà. Chi invece resta nella terra di nessuno, finisce, inevitabilmente, per restare indietro.
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