Come ha fatto Nike, colosso indiscusso dello sportswear, a crollare in Borsa nel 2025? Sembra impossibile che il marchio del “Just Do It” abbia perso il suo smalto leggendario, eppure una serie di errori strategici dal 2023 in poi ha portato a vendite in calo, margini erosi e un tonfo storico del titolo. In questo articolo analizziamo in profondità tutte le cause di questo tracollo – dagli utili in caduta libera ai passi falsi di marketing –. Prepariamoci a un viaggio tra dati impietosi, leggi di marketing violate e scelte aziendali da manuale (in senso negativo), il tutto con il mio classico stile “da spogliatoio” che ci permette di chiamare le cose col loro nome senza peli sulla lingua.
Dal top alla caduta: i numeri del disastro
Per contestualizzare il crollo di Nike nel 2025, partiamo dai freddi numeri. Dopo anni di crescita quasi ininterrotta, Nike ha iniziato a mostrare segni di cedimento già nel 2023. Gli utili e i ricavi hanno iniziato a ristagnare o calare e le prime crepe sono comparse nei bilanci. La situazione è precipitata nel 2024 e nei primi mesi del 2025, con una sequenza preoccupante di trimestri in flessione:
- Quattro trimestri consecutivi di vendite in calo. Nike ha inanellato un calo delle vendite anno su anno per quattro trimestrali di fila. Nel terzo trimestre fiscale 2024 (chiuso a febbraio ‘25) il fatturato è sceso del -9% rispetto all’anno precedente, a 11,27 miliardi di dollari. E per il trimestre successivo si prevedeva un tonfo attorno al -15%. Un’annata nera paragonabile solo al crollo durante la pandemia del 2020.
- Utili e margini in picchiata. Nel Q3 2024, l’utile per azione è precipitato del -30% (0,54 $ contro 0,77 $ un anno prima). Il margine lordo è crollato di 330 punti base, scendendo al 41,5%. Tradotto: Nike guadagna molto meno per ogni prodotto venduto. La stessa azienda ammette che ciò è dovuto a sconti più elevati e a un eccesso di scorte invendute che hanno costretto a svendere sul mercato.
- Inventari alle stelle. A fine 2024 Nike aveva accumulato 8 miliardi di dollari di inventario. Merce rimasta nei magazzini perché non venduta, indice di gravi errori di previsione della domanda o di prodotti poco desiderati. Per liberarsene, l’azienda ha dovuto applicare forti sconti, erodendo i margini e danneggiando la percezione di esclusività del brand.
- Domanda e traffico in calo. Indicatori indiretti mostrano un raffreddamento dell’interesse verso il marchio: i download delle app Nike nel trimestre in esame sono crollati del -35% anno su anno, e il “foot traffic” nei negozi fisici Nike è calato dell’11%. Meno gente in negozio, meno utenti sulle app: segno che Nike sta perdendo appeal e “traffico” di clienti, sia online che offline.
Il risultato finale? Una debacle in Borsa. Dopo aver toccato il massimo storico nel novembre 2021 (capitalizzazione di circa 281 miliardi di dollari), Nike ha visto il proprio valore ridursi di oltre il 60%. Nel marzo 2025, con l’ennesimo profit warning, il titolo è precipitato ai livelli più bassi dalla pandemia, arrivando a capitalizzare meno di 100 miliardi di dollari. In un solo giorno (21 marzo 2025) ha perso un altro -9% circa, cancellando 9 miliardi di valore di mercato. Insomma, nel giro di due anni Nike ha bruciato quasi 180 miliardi di dollari di capitalizzazione – un “harakiri” finanziario degno di studiarsi nei manuali.
L’andamento del titolo Nike (linea rossa, in dollari) dal 2015 al 2025 evidenzia il picco toccato a fine 2021 (oltre 170 $) e il successivo crollo fino ai minimi del 2025 sotto 70 $. La caduta libera del biennio 2024-2025 ha riportato le azioni Nike ai livelli di metà 2017, spazzando via in pochi trimestri tutti i guadagni accumulati negli anni di successo.
Di fronte a questi numeri impietosi, gli azionisti si chiedono: com’è possibile? Cosa ha portato un’azienda apparentemente invincibile a un simile declino? La risposta va cercata non nei capricci del mercato, ma nelle scelte strategiche di Nike.
Dal 2023 Nike ha commesso una serie di errori gravi – di marketing, posizionamento e gestione – che si sono accumulati fino a far precipitare la situazione. Vediamoli uno per uno, mettendoli in relazione con le leggi immutabili del marketing e il concetto di focus predicato da Al Ries.
Errore #1: Perdere il focus (da performance a “tutto per tutti”)
Il primo e forse più fondamentale errore strategico di Nike è stato smarrire la focalizzazione storica del brand. Per decenni Nike ha posseduto una parola chiave nella mente dei consumatori: “performance”. Il DNA di Nike era chiaro e distinto: scarpe e abbigliamento per atleti, per chi vuole superare i propri limiti sportivi. Just Do It non era solo uno slogan, era un manifesto di determinazione atletica.
Ogni campagna pubblicitaria iconica di Nike – pensiamo a Michael Jordan che vola a canestro, a runner che tagliano il traguardo o a Serena Williams che ruggisce in campo – ribadiva lo stesso concetto: Nike è il marchio di chi punta alla prestazione sportiva eccellente.
Dal 2023 in poi, però, Nike ha avviato una deriva verso campagne sempre più generiche e “inclusive”, spostando il baricentro dalla performance all’ideologia e al “sentiment” generale. Intendiamoci: niente di male nei valori inclusivi in sé. Il problema è come sono stati declinati, andando a diluire la percezione del brand. Qualche esempio?
- Body positivity estrema: Nike ha sposato la causa della body positivity, inserendo nelle proprie campagne e nei propri store modelle plus-size e manichini oversize. Lungi dall’essere un semplice ampliamento di taglie (sacrosanto dal punto di vista commerciale), la mossa è stata comunicata in modo provocatorio e divisivo.
Alcuni commentatori hanno accusato Nike di “promuovere l’obesità” presentando uno stile di vita non proprio atletico come nuovo ideale. Al di là delle polemiche, resta un fatto: l’immaginario Nike si è spostato dall’atleta scultoreo a figure ben lontane dai canoni sportivi.
Un cortocircuito comunicativo che ha confuso molti clienti affezionati al messaggio “fitness e prestazione”. In termini di leggi del marketing, qui si è infranta la Legge della focalizzazione: “nella mente del consumatore, un brand dovrebbe possedere una parola”.
Nike rischia di non possedere più “prestazione” (performance) perché ha provato ad associarsi anche a “inclusione” o “accettazione di sé” – concetti nobili, ma non coerenti con il suo posizionamento originario.
- Campagne ESG e attivismo: Parallelamente, Nike ha aumentato a dismisura le comunicazioni su temi di sostenibilità ambientale, uguaglianza sociale, inclusione di genere ecc. Ricordiamo lo spot “Equality” e altre campagne dove lo sport quasi passa in secondo piano rispetto al messaggio etico.
Nel 2020 Nike fece parlare con il celebre spot anti-razzismo: “For once, Don’t Do It” durante le proteste BLM. Nel 2023 ha proseguito su questa scia “activist”. Emblematico il mini-scandalo dell’aprile 2023: Nike arruola la nota influencer transgender Dylan Mulvaney (sì, la stessa della disastrosa debacle BudWeiser) per promuovere una linea di reggiseni sportivi, scatenando l’ira di una fetta di pubblico conservatore (e non solo) che lancia l’hashtag #BoycottNike e accusa il brand di essere “woke” e fuori controllo.
Nike difende la scelta, ma intanto il dibattito impazza ben oltre il merito tecnico dei suoi prodotti. E mentre si parla di ciò, chi parla più delle nuove scarpe da running? Siamo di fronte a una distrazione dal core business: la Legge della percezione ci ricorda che “il marketing non è una battaglia di prodotti ma di percezioni”. Se la percezione dominante diventa che Nike è un’azienda “politicizzata” o più impegnata a fare virtue signaling che a fare ottime scarpe, poco importa che le sue scarpe siano ancora buone.
Nella mente del cliente Nike non è più sinonimo univoco di sport. Come disse Al Ries, “se vuoi essere tutto per tutti, finisci per non essere niente di specifico per nessuno.” E Nike, nel tentativo di abbracciare tutte le cause, ha rischiato di perdere la causa originaria (lo sport e gli sportivi).
In sintesi, Nike ha annacquato il proprio focus storico. La mancanza di coerenza tra la narrativa attuale del brand e il suo DNA originario è lampante. Il DNA Nike era performance, competizione, vittoria sudata. La narrativa recente è diventata inclusione, ispirazione generica, “il prodotto è quasi un dettaglio, l’importante è il messaggio”.
Questa frattura si paga: la percezione del marchio si confonde. La Legge della coerenza nel marketing non perdona: se tradisci ciò per cui i clienti ti hanno amato, questi iniziano a dubitare di te. Nike avrebbe potuto supportare cause sociali senza rinnegare la performance – ad esempio mostrando atleti di ogni etnia, genere, corporatura eccellere nello sport (coerente col messaggio “se hai un corpo, sei un atleta” di Bill Bowerman).
Invece spesso l’attenzione è andata più al messaggio “politico” che alla prestazione, rompendo l’incantesimo del brand agli occhi di molti.
Il nuovo CEO di Nike, Elliott Hill, nominato a fine 2024 proprio per risollevare le sorti dell’azienda, ha implicitamente ammesso questo problema di focus. Ha dichiarato che Nike sta “recentering on sports as its North Star” – rimettere lo sport al centro come stella polare. Traduzione: torniamo a parlare di atleti e performance, perché abbiamo esagerato con altro.
Quando un’azienda deve pubblicamente dire “ci rifocalizziamo sullo sport”, significa che era uscita fuori strada. Una lezione brutale: Focus, focus, focus! Ce lo ricorda anche Al Ries nel suo libro Focus: la prosperità di un’azienda dipende dal mantenere una focalizzazione ristretta sul proprio punto di forza. Nike l’aveva dimenticato, tentando di allargare il messaggio a tutti e a tutto, ed ecco le conseguenze.
Errore #2: Violare la legge del sacrificio (voler accontentare chiunque)
Legata alla perdita di focus c’è un’altra colpa grave: Nike ha voluto accontentare chiunque, rifiutando di sacrificare alcun segmento o messaggio. Nelle 22 leggi del marketing, la Legge del Sacrificio recita che “per ottenere qualcosa bisogna rinunciare a qualcos’altro”. Ci sono tre ambiti di sacrificio: linee di prodotto, mercati target e costanza dei cambiamenti. Ebbene, Nike li ha infranti tutti e tre:
- Nessun sacrificio di prodotto: Nike vende di tutto, per tutti gli sport e gusti. Dalle scarpe da basket alle infradito, dall’abbigliamento tecnico da running ai completini fashion da yoga, fino agli accessori lifestyle. Questo potrebbe sembrare normale per un gigante come Nike, ma in realtà è un’enorme estensione di linea accumulata negli anni.
Ogni volta che c’era un trend, Nike c’era: sneakers da collezione? Nike produce edizioni limitate in collaborazione con rapper e stilisti. Yoga in boom? Nike lancia linee yoga (provando a sfidare Lululemon). Moda streetwear? Nike inonda il mercato di felpe e t-shirt casual col suo logo.
Tutto, ovunque.
Nel breve periodo, queste estensioni di linea hanno portato fatturato. Nel lungo, hanno creato confusione e dispersione di energie. La concentrazione su ciò che rende unico il brand si è persa in mille rivoli.
Un esempio lampante del peccato di bulimia da linee: la saturazione delle iconiche sneakers Air Jordan 1 e Dunk. Un tempo scarpe mitiche e rare, nel 2023-24 sono state rilasciate in così tante varianti di colore e collaborazioni da perdere l’aura. Il mercato è stato inondato, tanto che Nike ha dovuto svendere perfino modelli storici come Air Force 1, AJ1 e Dunk per smaltire le scorte.
Un sacrilegio per un brand premium, sintomo di grave errore di line extension: quando devi fare sconti sulle tue scarpe più classiche e amate, vuol dire che hai tradito la loro esclusività. Avresti dovuto sacrificare qualche uscita in più, preservando il prestigio, invece di stampare scarpe come se non ci fosse un domani.
- Nessun sacrificio di mercato target: Nike ha cercato di parlare a tutti i pubblici contemporaneamente. Vuoi essere il brand preferito dei teenager hypebeast amanti delle “collab fashion” ma anche dei boomer manager che comprano le Nike Monarch per camminare?
Vuoi piacere sia all’atleta professionista che si allena 7 giorni su 7 sia alla ragazza sedentaria che però apprezza il tuo messaggio inclusivo body-positive? Impossibile.
Segmenti diversi hanno bisogni e aspirazioni diverse. La regola aurea del marketing strategico: se cerchi di essere rilevante per tutti i target, finisci per non entusiasmare nessuno. Nike avrebbe dovuto scegliere le proprie battaglie: ad esempio, mantenere una comunicazione aspirazionale per chi nello sport cerca il miglioramento personale e forse lanciare un marchio separato per linee più lifestyle/casual se voleva espandersi lì, senza mischiare i due mondi.
Invece ha mescolato tutto sotto lo Swoosh, con il risultato di avere messaggi contraddittori: in uno spot inciti l’amatore a correre la maratona, in un altro dici che “va bene così come sei”. In un post mostri l’allenamento massacrante di Cristiano Ronaldo, in un altro l’influencer semi-sedentaria che sfila coi tuoi leggings.
Il consumatore resta perplesso: “Ma Nike che posizione ha? Vuole che mi impegni o che mi sieda sul divano? È per chi suda o per chi posa?” E quando un brand non è chiaro a livello di target, perde i fedeli e non conquista davvero i nuovi.
Avrebbe dovuto sacrificare qualche pubblico (ad esempio, evitare mosse che sapeva avrebbero alienato una fetta di sportivi tradizionalisti), ma Nike ha creduto di poter essere amata da chiunque. Questo “buonismo universale” si è rivelato un boomerang.
- Cambiare rotta di continuo (mancanza di costanza): Un altro sacrificio richiesto dalla legge del sacrificio è rinunciare all’idea di poter cambiare strategia ogni sei mesi. Nike qui ha sofferto di un po’ di schizofrenia strategica.
In un periodo brevissimo ha lanciato iniziative eterogenee: prima spinge forte sul direct-to-consumer e taglia molti distributori terzi, poi – visti i problemi – fa parziale marcia indietro e cerca di “ricostruire i rapporti con i retailer” storici.
Un momento investe nei mondi virtuali (acquisizione di RTFKT per sneaker NFT, per cavalcare quella cacata mondiale di moda del “metaverso”), poi nel 2023 quella bolla scoppia e di colpo si torna a puntare sui negozi fisici e le città chiave.
Prima ancora, nel 2018-2020 Nike surfava sull’onda “politica” con Kaepernick e messaggi sociali forti; nel 2022-23 con l’aria che tira (vedi reazioni a Dylan Mulvaney) la comunicazione vira su toni più prudenti e celebrativi dello sport (ad esempio il grande spot al Super Bowl 2025 con protagoniste atlete come Caitlin Clark, per “riconnettersi” col pubblico).
Insomma, una serie di zig-zag.
Ciascuna mossa in sé potrebbe avere motivazioni, ma nell’insieme la sensazione è di un’azienda che insegue i trend del momento (ora il social activism, ora il metaverso, ora di nuovo il retail tradizionale…) senza una linea coerente di lungo termine.
La Legge della coerenza dice che la marca deve avere continuità di direzione. Nike, nel panico di vedere calare vendite e quote, ha dato qualche colpo di timone di troppo, alimentando la percezione di confusione.
In definitiva, Nike non ha voluto sacrificare nulla: né prodotti, né audience, né mode passeggere. Ha detto “sì” a tutto. Ma nel marketing, ogni “sì” mal ponderato presenta il conto. Avrebbe dovuto dire qualche “no”: no a linee non in linea col core (o almeno farle con altri marchi, come fa ad esempio Procter & Gamble lanciando nuovi brand per nuovi segmenti), no a voler per forza entrare in ogni tendenza (meglio focalizzarsi sulle vere opportunità strategiche), e no a certe campagne che stridono con il brand (se vuoi fare inclusività spinta, magari fallo con un marchio sussidiario come avevano fatto per “Air Jordan” lasciando Nike intatto).
Al Ries nel suo libro Focus avverte: “la ricerca ossessiva della crescita porta le aziende a diluire il proprio core business”. Nike è caduta esattamente in questa trappola: ha inseguito la crescita ovunque, perdendo la posizione solida che occupava nella mente dei clienti.
Errore #3: Innovazione bloccata e perdita di leadership di prodotto
Un effetto collaterale (ma devastante) della perdita di focus è stato un rallentamento nell’innovazione di prodotto. Mentre il marketing Nike si disperdeva in mille messaggi, l’offerta di prodotto iniziava a ristagnare.
Proviamo a chiedercelo: qual è stato l’ultimo prodotto Nike davvero rivoluzionario o entusiasmante dal 2023 ad oggi? Difficile rispondere. Le scarpe da running con piastra in carbonio (Vaporfly, Alphafly) risalgono al 2017-2019, oltre quel periodo nessun grande salto tecnologico; le linee di abbigliamento non hanno visto nulla di paragonabile al lancio di Dri-FIT negli anni ’90.
Nelle sneakers da basket/reggae/tempo libero Nike ha vivacchiato di rendita sui classici (Jordan, Air Max) con ritocchi minimi.
Secondo analisti ed esperti, sotto la precedente gestione (CEO John Donahoe, 2020-2024) Nike ha commesso passi falsi di strategia che hanno portato a una carenza di innovazione nelle linee di prodotto.
In altre parole, si è puntato più sullo spremere le glorie del passato (colori nuovi di modelli vecchi, riedizioni, collaborazioni fashion) che sull’inventare nuovi franchise di successo. La stessa Nike, con l’arrivo del nuovo CEO, ha riconosciuto il problema e sta cercando di correre ai ripari “accelerando sullo sviluppo prodotto”.
Nel frattempo però la domanda ristagna: i consumatori non aprono più il portafogli con l’entusiasmo di prima perché non vedono novità davvero imperdibili.
David Swartz di Morningstar (non il primo “Frank Merenda” che passa) è lapidario:
Nike ora ha bisogno di “creare un intero nuovo franchise di prodotti che aggiunga miliardi in vendite… e ciò richiederà anni”.
Non bastano uno o due modelli “sfiziosi”: serve qualcosa di grosso e durevole, come furono a loro tempo le linee Air Max, Jordan, Flyknit, ecc.
Perché Nike ha perso questo treno dell’innovazione? Distrazione e compiacenza. Distrazione perché le energie dell’azienda erano rivolte altrove (vedi sopra: marketing ideologico, strategie distributive aggressive, battaglie social); compiacenza perché la posizione dominante di mercato forse ha illuso Nike che il brand da solo bastasse a vendere, anche senza innovare troppo.
È la Legge del successo di Al Ries: il successo spesso porta all’arroganza, e l’arroganza al fallimento. Nike, forte di decenni di dominio, può aver pensato di poter dettare legge comunque. Nel frattempo però i concorrenti si sono dati da fare (lo vediamo nel prossimo paragrafo). E i consumatori, soprattutto i giovani, hanno iniziato a percepire Nike come un marchio un po’ “stanco”. Nike negli ultimi anni si è messa a fare campagne iper-moderne per lanciare “IL MESSAGGIO®️” su uguaglianza e diversità per “IL PUBBLICO MODERNO™️”.
Paradossalmente, il prodotto – le scarpe e i vestiti – appariva meno moderno di quello di alcuni rivali più piccoli ma agili. E questo “PUBBLICO MODERNO™️” non sembra proprio esistere o almeno non essere pagante. Ma per nulla proprio. Come quello che non vuole vedere i classici Disney stuprati ad esempio dati i recenti e interminabili flop al botteghino.
Un segnale di allarme era arrivato proprio dal mercato chiave delle sneaker “hype”: attorno al 2022-2023, il resale market delle Nike più iconiche (Dunk, Jordan 1, etc.) si è raffreddato. Modelli che prima schizzavano sold out e rivendevano a 3x il prezzo retail hanno cominciato a rimanere disponibili o a rivendere al di sotto del retail.
I collezionisti e sneakerhead sono volubili: fiutano quando la novità manca. E Nike li ha delusi saturando il mercato con troppe uscite fotocopia e poche innovazioni reali.
La carenza di innovazione ha colpito duro in mercati fondamentali come la Cina. In Cina, Nike ha sofferto un calo di vendite del -17% in un trimestre recente, complice non solo la debolezza economica locale ma anche una concorrenza locale agguerrita (Anta, Li-Ning) che ha proposto prodotti nuovi e culturalmente più vicini ai consumatori cinesi.
Un analista ha sottolineato: “Di tutti i mercati, quello cinese è quello in cui la novità di prodotto è più importante. La chiave per loro sarà tornare a offrire modelli nuovi e innovativi”. Insomma, Nike paga un gap di innovazione proprio nel momento in cui avrebbe bisogno di prodotti freschi per riaccendere l’entusiasmo globale.
Possiamo però citare un episodio positivo recente: nei primi mesi 2025, con Hill al comando, Nike ha lanciato in rapida sequenza due nuovi modelli running, la Pegasus Premium e la Vomero 18, proprio per dare un segnale di vitalità. Ha persino trasmesso il primo spot al Super Bowl in 27 anni, puntando sulle atlete femminili emergenti, per dimostrare di saper ancora essere rilevante nella cultura pop.
Sono segnali incoraggianti, ma che arrivano tardi: il pubblico ormai si era accorto del vuoto innovativo. La Legge dell’Accelerazione di Ries ci ricorda che i successi duraturi si costruiscono su tendenze solide, non su mode passeggere. Nike, inseguendo mode (come le sneaker da collezione) senza alimentare abbastanza trend di lungo periodo (come nuove tecnologie per lo sport), si è ritrovata con il fiatone.
Riassumendo: meno focus sul core = meno innovazione prodotto = meno desiderabilità. Il marketing più brillante del mondo non salva un’azienda se il prodotto non entusiasma. Nike sta capendo sulla propria pelle questa verità elementare. Avrebbe dovuto tenere il piede sull’acceleratore dell’R&D e sulle performance di prodotto, invece di distrarsi con battaglie di contorno. “Victory loves preparation”, dice un motto sportivo: la vittoria arride a chi si prepara. Nike in questo giro si è fatta trovare impreparata sul fronte che più conta – quello dell’eccellenza del prodotto.
Errore #4: Distribuzione e canali – DTC vs retailer, un pendolo mal calibrato
Un altro tassello della vicenda è il tema distribuzione. Negli ultimi anni Nike ha rivoluzionato il proprio modello distributivo con la strategia “Direct-to-Consumer” (D2C): più vendite dirette attraverso i propri negozi monomarca e l’e-commerce/app Nike, e taglio delle forniture ai rivenditori multi-marca tradizionali.
L’idea era di aumentare i margini (saltando l’intermediario), controllare meglio l’esperienza cliente e il brand, e raccogliere dati diretti sui consumatori. Una strategia che sembrava vincente sulla carta. Ma tra il 2023 e il 2024 questo pendolo distributivo forse è andato troppo oltre, creando problemi sia a Nike che ai partner.
Nel 2022 Nike ha iniziato a ridurre drasticamente le quantità fornite a catene come Foot Locker, causando un terremoto nel settore. Foot Locker, che storicamente vendeva tonnellate di Nike, si è vista relegare a un ruolo minore tanto che il suo titolo crollò all’epoca per la paura di perdere Nike. Nike apriva più Nike Store propri, spingeva l’app SNKRS per le uscite speciali, e incoraggiava i clienti a comprare direttamente da Nike.com. All’inizio andava bene, poi sono emersi effetti collaterali:
- Meno “vetrine” sul mercato. Riducendo la presenza nei negozi altrui, Nike ha perso un po’ di visibilità diffusa, soprattutto in luoghi dove non ha store propri. Nei mercati internazionali o periferici dove i multi-brand sportivi regnano, Nike rischiava di lasciare campo ai concorrenti (se il negozio locale non ha Nike, spingerà Adidas o altri).
- Inventario bloccato in casa. Con la pandemia prima e i rimbalzi poi, Nike si è trovata con un surplus di scorte. Se avesse avuto più canali wholesale, forse avrebbe potuto scaricare parte dell’eccesso sui partner (magari con promozioni concordate). Avendo puntato sul DTC, si è trovata a dover scontare lei stessa nei propri canali quel surplus, “sporcando” l’immagine premium nei suoi stessi negozi. Foot Locker nel 2024 ha segnalato che le promozioni aggressive di Nike per smaltire scorte avrebbero inciso sui suoi margini – segno che Nike è dovuta tornare col cappello in mano dai retailer per aiuto a vendere il surplus a saldo.
- Relazioni incrinate e marcia indietro. Nel 2024, con il cambio al vertice, Nike ha riconosciuto la necessità di ricucire i rapporti con i rivenditori tradizionali. Il nuovo CEO Hill ha parlato di una strategia “Win Now” che include rafforzare la presenza sul campo in 5 città chiave (tra cui Shanghai e Pechino) e ristabilire le partnership. In pratica, dopo aver quasi snobbato partner storici, Nike sta tornando sui suoi passi.
Questo tira e molla denota una strategia distributiva poco equilibrata. L’ideale sarebbe stato un approccio armonioso, invece si è passati da un estremo (troppa dipendenza dai retailer terzi) all’altro (quasi esclusività D2C), per poi dover correggere di nuovo.
La lezione di marketing qui attiene forse alla Legge di Lapalisse: i prodotti devono essere dove i clienti vogliono comprarli. Il focus ossessivo sul canale diretto ha fatto perdere di vista che non tutti i clienti vogliono o possono comprare direttamente da Nike.
Alcuni preferiscono il negozietto sotto casa, altri un sito multi-brand dove confrontano marche. Inoltre, i partner commerciali erano anche alleati nel promuovere il brand. Tagliarli fuori troppo bruscamente ha creato risentimento e meno spinta sul marchio nei loro negozi.
Adidas, ad esempio, ha colto la palla: mentre Nike riduceva forniture, Adidas manteneva relazioni solide coi retailer, riempiendo gli spazi lasciati vuoti e guadagnando visibilità. Errore di arroganza anche qui: pensare
“siamo Nike, non ci servono gli altri, verranno tutti direttamente da noi”
è stato ingenuo. Alla fine Nike ha dovuto rivedere la strategia e ora cerca un equilibrio più sensato tra vendita diretta e indiretta – ma il tempo perso e le mancate vendite hanno contribuito al calo recente.
Mentre Nike inciampa, la concorrenza corre (Adidas, Under Armour, On, Lululemon)
Il tracollo Nike non avviene in un vuoto pneumatico: mentre Nike sbagliava mosse, i concorrenti non stavano certo a guardare. Anzi, alcuni hanno sfruttato l’occasione per rosicchiare quote di mercato e rafforzare il proprio posizionamento, spesso applicando proprio quei principi di focus che Nike sembrava aver dimenticato. Diamo uno sguardo ai principali:
1. Adidas: Il rivale storico ha attraversato guai suoi (la saga Kanye West/Yeezy nel 2022 è costata cara), ma paradossalmente ciò ha “costretto” Adidas a tornare alle basi. Con il nuovo CEO Bjørn Gulden (insediato nel 2023, ex Puma), Adidas ha tagliato i rami secchi e rimesso al centro i suoi pilastri: calcio, corsa, basket, il tutto con prodotti forti e meno dipendenza dalle mode passeggere.
Nel periodo in cui Nike crollava, Adidas ha dato segnali di tenuta: dal settembre 2024 a primavera 2025, mentre Nike perdeva il 19% in Borsa, Adidas guadagnava terreno. Gli analisti percepiscono Adidas come in ripresa, anche perché ha mostrato disciplina (ha gestito l’uscita di scena di Yeezy vendendo gli stock residui e destinando parte a beneficenza, mossa apprezzata, e ha lanciato meno collezioni bizzarre concentrandosi su modelli classici come Samba, Superstar – tornati di moda – e nuove scarpe performance come Adizero per la corsa).
In breve, Adidas ha sfruttato il momento “no” di Nike per riguadagnare fiducia degli investitori con una strategia più focalizzata sui core business sportivi e meno dipendente dal gossip della moda. La legge dell’opposto dice: “se sei il #2, la tua strategia è determinata dal leader”.
In questo caso Adidas ha fatto quasi l’opposto di Nike: Nike spingeva sul direct-to-consumer? Adidas ha collaborato con più retailer. Nike faceva campagne ideologiche? Adidas è rimasta più sul prodotto (a parte qualche iniziativa, ma minore eco). Nike saturava di modelli retro? Adidas, pur avendo anch’essa molte linee, è stata baciata dalla tendenza spontanea dei giovani verso le sue scarpe vintage (es. il fenomeno Samba mania del 2023) senza dover strafare. Risultato: Adidas oggi appare più solida di un paio d’anni fa, e certamente in proporzione ha retto meglio di Nike nel periodo recente.
2. Under Armour: La parabola di Under Armour è quasi istruttiva per Nike, come monito. UA era esplosa a inizio anni 2010 grazie a un posizionamento focalizzato (abbigliamento tecnico per atleti, image forte nel training e nel football USA). Poi ha rovinato tutto cercando di imitare Nike ed espandersi in ogni direzione: accordi costosi con celebrity non sportive, moda casual, e distribuzione inflazionata (riempendo le catene di abbigliamento a basso costo, perdendo appeal premium). Il risultato?
Un tracollo di vendite e di stock intorno al 2017-2018 da cui non si è più ripresa del tutto. Ebbene, mentre Nike dal 2023 stava quasi ripetendo alcuni errori (brand dilution, troppa moda vs performance), Under Armour nel frattempo ha provato a rifocalizzarsi sullo sport per sopravvivere. Hanno ridotto l’athleisure, lanciato campagne più grintose (#TheOnlyWayIsThrough), puntato sulle scarpe da basket (es. linea di Steph Curry) e training, e mantenuto un profilo più sobrio.
UA resta un player minore, ma emblematicamente non ha avuto scandali “woke” o guerre culturali: si è tenuta fuori da certe diatribe, concentrandosi sul vendere abbigliamento per chi si allena. Non ha compiuto miracoli (le sue vendite 2023 erano stagnanti), ma ha evitato di peggiorare. Una lezione che Nike avrebbe dovuto osservare: l’ex enfant terrible Under Armour ha imparato a caro prezzo che tradire il proprio posizionamento porta a schiantarsi – perché incaponirsi a provarlo sulla propria pelle?
3. On Running: Ecco il caso di un campione di focus. On (ON Running) è un brand nato in Svizzera una decina di anni fa con un unico obiettivo cristallino: fare scarpe da running innovative, con un’identità stilistica e tecnica unica (le suole “Cloud” con fori). Hanno iniziato così e, nonostante il successo mondiale recente, continuano a fare quasi solo quello: scarpe da corsa (e simili) premium.
Certo, ora vendono anche abbigliamento running e qualche scarpa meno “estrema”, ma tutto è coerente con l’universo del running e del movimento. Il risultato? Crescita esplosiva: On ha superato 1 miliardo di $ di fatturato con tassi di crescita a doppia cifra robusta, rubando clienti proprio a Nike nel segmento running performance e anche nel lifestyle “athleisure” (quante persone ormai portano le On Cloud anche per uscire, come status symbol techy-chic?).
Mentre Nike perdeva colpi, On Running macinava vendite e il titolo in Borsa (quotato dal 2021) performava di conseguenza. Pensate: On nel 2023-24 è arrivata ad avere una capitalizzazione di mercato vicina a 10 miliardi, non male per un’azienda piccola, e segnale che gli investitori credono nel suo focus strategico.
On non si è messa a fare skateboard shoes, non ha firmato collezioni haute couture, non ha lanciato campagne sociali roboanti: ha martellato sul concetto di “scarpa da corsa tecnologica e cool”. E il mercato l’ha premiata. Questo è l’esempio vivente di ciò che Al Ries predica: focalizzarsi su una categoria e dominarla nella percezione. On è diventata “la scarpa dei runner (benestanti) e dei techies”. Nike rischia di diventare “la scarpa di… boh, tutti e nessuno”.
4. Lululemon: Altro case study di focus vincente. Lulu si è fatta un impero (oggi oltre 10 miliardi di $ di ricavi annui) stando iper concentrata sul segmento yoga/fitness femminile premium, senza disperdere l’aura di brand elitario per chi tiene al benessere e all’eleganza sportiva.
Lululemon è praticamente l’anti-Nike in tutto: niente sponsor di squadre o atleti di grido, niente calzature da performance estrema (ha lanciato solo un paio di modelli di sneakers e senza troppo clamore), zero politica, zero messaggi controversi. Il loro marketing parla di community yoga, self-improvement, stile di vita sano.
Un posizionamento chiaro e positivo, che non aliena nessuno dei loro clienti target. E i numeri parlano: vendite in crescita (+10% nel 2024, raggiungendo $10,6 miliardi), margini altissimi (gross margin attorno al 55%) e fan base fedelissima. Nel periodo in cui Nike faticava, Lululemon ha addirittura ampliato la quota di mercato nell’abbigliamento athleisure e ha continuato a prosperare.
È riuscita dove Nike ha fallito anche in un’altra cosa: entrare nel guardaroba quotidiano mantenendo il prestigio. Nike con le linee sportswear generaliste rischia di banalizzarsi; Lululemon ha reso i suoi leggings uno status symbol che la gente mette anche fuori dalla palestra, ma senza percepirli come “di massa”. Come? Focus e coerenza. Non hanno mai svenduto il brand con sconti folli, né l’hanno snaturato con licenze su prodotti random. Perfino le mosse di diversificazione (come l’acquisto dello specchio fitness Mirror) sono state fatte per rafforzare l’ecosistema wellness, non per scappare in territori strani.
Morale: Lululemon presidia saldamente un segmento che Nike ambiva (donne fitness alto spendenti), e l’ha fatto, ironicamente, applicando meglio i principi di marketing di quanto non abbia fatto Nike stessa.
In generale, tutti questi concorrenti hanno beneficiato – direttamente o indirettamente – degli errori di Nike. Ogni volta che Nike delude una fascia di clienti (gli sneakerhead delusi dall’eccesso di hype, i runner hardcore delusi dalla poca innovazione, i conservatori infastiditi dalle campagne inclusive, i retailer traditi dal DTC, ecc.), c’è un concorrente pronto a raccoglierli:
1. New Balance e Puma si sono presi qualche ex fan Nike old school,
2. On e Hoka (Diadora inclusa in Italia) hanno preso runner insoddisfatti,
3. Adidas si è ripresa qualche team sport,
4. Lululemon qualche yogi,
5. Skechers si è portata via tutta la fascia “comoda” e resistente e così via
Nike resta enorme e nessun singolo concorrente la soppianta, ma tanti piccoli morsi alla fine fanno male. È la Legge della Divisione: col tempo, una categoria si divide in tante sottocategorie.
Nike confidava di poter dominare tutte le sottocategorie dello sportswear con il suo “brand ombrello” (bella cazzata da accademico ignorante).
La realtà è che i consumatori tendono a premiare specialisti in ciascuna categoria (il running a On/Hoka, il training premium a Lululemon, il basket performance magari al Jordan Brand stesso separato da Nike, la comodità per Skechers ecc.). Questa concorrenza segmentata ha messo in luce quanto Nike si fosse dispersa.
Il ritorno alle origini (mancato) e le leggi di marketing ignorate
Facciamo il punto delle leggi del marketing violate da Nike in questa vicenda, perché sembrano uscite pari pari dal libro di Ries & Trout:
1. Legge della Leadership: Nike era leader e si è comportata da arrogante, pensando di poter dettare le regole del gioco (su prezzi, canali, messaggi) senza ascoltare il mercato. Ma un leader che sbaglia strada fa da traino… nel burrone. La leadership mantenuta richiede umiltà e ascolto delle dinamiche, non compiacenza.
2. Legge della Focalizzazione: come discusso, Nike ha perso la parola chiave “performance” cercando di aggiungere troppe parole (inclusione, moda, lifestyle generico). Un marchio = una promessa. Nike ha confuso la promessa e il pubblico ha ricambiato con meno fedeltà.
3. Legge della Percezione: Nike ha puntato su reali qualità di prodotto (tecnologia, varietà) dando forse per scontato che la percezione del brand restasse intatta. Invece la percezione presso molti consumatori è peggiorata (un brand meno esclusivo, troppo politico, o semplicemente “non cool” come prima).
4. Legge dell’Escusività (Focus mentale): Due brand non possono possedere la stessa parola nella mente del cliente. Nike possedeva “sport performance”. Ha ceduto terreno forse a marchi che ora possiedono parole specifiche: “running innovativo” = On, “yoga chic” = Lulu, ecc. Nike ha perso esclusività semantica. (dovrei farmi pagare per questa roba, lo so…)
5. Legge dell’Estensione di linea: Forse la più platealmente violata. Nike ha esteso il marchio a qualsiasi cosa: dai calzini alle app per fitness, dagli orologi (era entrata con Apple Watch Nike) alle collezioni moda con Supreme.
Nulla è sacro: qualunque nuovo filone, cacciamoci lo Swoosh sopra. Ries insegna che l’estensione incontrollata mina la forza del brand. E infatti Nike oggi è forte a metà: vende di tutto, ma non domina più in quasi niente. Ha lasciato spiragli agli specialisti. Inoltre line extension eccessiva significa complicare il business: troppe SKU, troppi investimenti dispersi, troppo inventario (vedi il problema scorte). Un focus maggiore su meno linee avrebbe reso più agile ridurre la produzione in tempo quando la domanda calava, ad esempio.
6. Legge del Successo (e dell’Arroganza): L’abbiamo citata: Nike si è un po’ innamorata di sé, pensando di essere intoccabile e che ogni sua scelta fosse giusta per definizione (un classico errore delle aziende di successo). Questo ha portato a sottovalutare segnali di allarme e critiche. Per anni Nike è stata lodata come “brand coraggioso” per campagne come quella di Kaepernick nel 2018; ciò forse ha convinto il top management che qualsiasi presa di posizione “forte” avrebbe pagato. Fino a che la realtà li ha smentiti (non ogni iniziativa risuona positivamente; devi capire il contesto).
7. Legge del Cambiamento (coerenza nel tempo): Nike ha un po’ violato il principio per cui le marche dovrebbero cambiare con estrema cautela. Hanno cambiato tono, priorità di canale, persino CEO in poco tempo. Ogni cambio disorienta clienti e investitori. Vedi l’impatto: cambio CEO = confessione di errori, e azioni giù perché il turnaround richiederà tempo.
8. Legge delle Risorse: Una delle 22 leggi dice che senza adeguate risorse un’idea non va da nessuna parte. Al contrario, Nike aveva fin troppe risorse – e le ha disperse. Budget enormi di marketing spesi forse in modo non efficiente (tanta brand awareness ma poca “vendita diretta”), oppure per finanziare atleti/ambasciatori discutibili in termini di ROI (contratti milionari che non portano vendite se l’atleta scelto non genera appeal sul pubblico core).
Potremmo continuare, ma il punto è chiaro: Nike ha ignorato molte regole base del marketing, forse pensando (come sempre in questi casi maledetti) di essere l’eccezione alle regole. Del resto, qualcuno potrebbe obiettare: “Ma Nike ha costruito un impero anche estendendo la linea (dalle scarpe all’abbigliamento), anche facendo campagne sociali (vedi il boom post-Kaepernick), anche saltando in nuovi sport (skate, surf, etc.) – quindi non seguiva le teorie di Ries neanche prima!”.
Vero, Nike in passato, dopo aver raggiunto la leadership surclassando Adidas grazie ad anni di focalizzazione, ha fatto mosse audaci che sembravano contrarie ai dogmi, e gli è andata bene.
La differenza che la gente non capisce e fa fatica a vedere è che in primis anche i suoi concorrenti la copiavano nella defocalizzazione e quelle mosse erano comunque guidate da una visione chiara e coerente col brand di allora.
Quando Nike lanciò l’abbigliamento, era pur sempre abbigliamento per sportivi; quando supportò atleti controversi, lo fece sempre in nome della narrazione “atleti che superano ostacoli” (Kaepernick fu presentato come atleta che sacrifica la carriera per un ideale, in linea col tono “eroico”).
Negli ultimi anni invece Nike è parsa muoversi senza la solita lucidità strategica, più reattiva che proattiva. In più (e questo che ha sparpagliato le carte sul tavolo), i suoi concorrenti hanno capito la lezione e hanno iniziato a strapparle un lembo di carne alla volta con la maggiore specializzazione e focalizzazione come abbiamo visto prima.
Nike continua a comportarsi come se avesse solo come concorrenti due “imitatori strategici” storici tipo Adidas e Puma. È come se fosse rimasta al 1997 quando grazie a 13 anni di Jordan e manovre azzeccate e focalizzate fosse l’unico brand “cool” al mondo. Ma il mondo è cambiato e quello che ha funzionato comunque e nonostante tutto in quelle condizioni negli anni successivi, oggi con la concorrenza focalizzata non funziona più. Sorry.
Il posizionamento ha più a che vedere con quello che fa la concorrenza per attaccarti e meno con quello che fai tu.
Nike per anni ha potuto “calciare il barattolo” e vivere di rendita. Nonostante estensioni e piccoli eccessi che però hanno chiesto il conto di colpo. Non a caso Al Ries chiamava l’estensione di linea “La bomba a orologeria”.
Conclusione: “Just Do It” (ma avresti dovuto farlo con giudizio)
In conclusione, il tracollo di Nike nel 2025 non è frutto di sfortuna o di un singolo evento imprevedibile: è l’esito di errori stratificati, di un graduale allontanamento dai principi che avevano reso Nike grande. Abbiamo visto come l’aver smarrito il focus sul core business, l’aver inseguito il consenso universale invece di sacrificare per rafforzare l’identità, l’aver trascurato l’innovazione di prodotto e l’aver gestito in modo ondivago i canali distributivi abbiano eroso il vantaggio competitivo di Nike. Il tutto condito da una certa arroganza da numero uno, che ha fatto sottovalutare i concorrenti più focalizzati e i segnali provenienti dal mercato.
Se Al Ries dovesse redigere un pagellino, probabilmente direbbe che Nike ha infranto le leggi del marketing a proprio rischio e pericolo – e ne sta pagando il prezzo.
E io nel mio piccolo direi che Nike è come il maratoneta in testa alla corsa che negli ultimi chilometri si mette a fare lo splendido col pubblico, rallenta per farsi applaudire da tutti, prova scarpe nuove proprio alla fine, saluta la fidanzata gnocca a bordo pista… e così facendo si fa sorpassare da chi continuava a correre concentrato. Nike negli ultimi anni ha perso di vista il traguardo, distratta da altro.
La buona notizia per Nike è che non è troppo tardi per correggere la rotta. I fondamentali (tecnologia, portafoglio atleti, capacità di investimento) ci sono. Il nuovo management pare intenzionato a tornare alle origini, rifocalizzando sullo sport, ridando importanza all’innovazione di prodotto e ricostruendo l’esclusività del marchio. Ci vorrà tempo – gli analisti stimano che una ripresa vera non avverrà prima della seconda metà del 2026 – ma è fattibile se Nike riabbraccerà le buone pratiche di marketing.
La vicenda Nike 2023-2025 resterà comunque un monito potente: nessun brand, nemmeno il più forte, è immune dagli effetti di strategie sbagliate. Le leggi del marketing non perdonano neppure chi le ha dominate per decenni. La prossima volta che un dirigente dirà “Siamo Nike, possiamo permettercelo”, forse qualcuno gli ricorderà che anche Nike ha fatto Just Do It… e ha appena scoperto sulla propria pelle che farlo senza strategia è il modo più veloce per passare da leggenda a case study di errori.
In altre parole: focus sulla concorrenza e sul proprio DNA, sempre. Tutto il resto (inclusività, espansioni, canali di vendita di moda) va dosato con cautela o evitato del tutto e subordinato sempre a quel focus. Nike pensava di poter riscrivere le regole del gioco a proprio piacimento; ha scoperto che le regole immutabili del marketing non erano così mutabili.
Speriamo che questa “lezione” riporti Nike a fare ciò che sa fare meglio: prodotti eccellenti e storytelling sportivo autentico. Perché alla fine, il mondo ha ancora bisogno di una Nike che dica agli atleti “Just Do It” – e che creda davvero in quel messaggio, nei fatti oltre che nelle parole.
Questo post è oro. Lo rileggerò più volte perché davvero non mi capacito di come marchi così facciano errori simili.
Per quanto mi riguarda, Nike quasi non esiste più. A parte il modello Cortez visto su modelle come Bella Hadid, non mi comunica granché. La body positivity e il buonismo sono un motivo per non comprare.
Il Woke colpisce ancora, e sempre più duramente.