Numeri da coma irreversibile
La notizia uscita l'8 aprile 2025 su Il Fatto Quotidiano è di quelle che fanno sobbalzare sulla sedia gli appassionati di auto: Maserati, storico marchio di lusso italiano, ha prodotto appena 1.050 auto nel primo trimestre 2025. Avete letto bene: millecinquanta auto in tre mesi. Per intenderci, un calo del 40% rispetto allo stesso periodo del 2024 e addirittura del 60% rispetto al 2023. Numeri da coma irreversibile per un brand che un tempo rappresentava l'eccellenza motoristica italiana.
Secondo la UILM (Unione Italiana Lavoratori Metalmeccanici), Stellantis – il gruppo automobilistico che controlla Maserati – sta di fatto "decidendo la morte" del brand, e lo stabilimento di Mirafiori (Torino) lavora a regime ridotto, quasi fosse diventato un museo semideserto aperto solo a giorni alterni. Insomma, il Tridente (simbolo della Maserati) sembra essersi spezzato, e le sue punte giacciono tristemente a terra.
Com'è potuto succedere che il glorioso marchio fondato dai fratelli Maserati oltre un secolo fa sia arrivato a questo punto? Spoiler: non per colpa del destino cinico e baro, ma per una serie di scelte discutibili che hanno infranto alcune delle più basilari leggi del marketing. Al Ries e Jack Trout le chiamano "immutabili" non a caso: ignorarle è un po' come ignorare la legge di gravità – poi non stupiamoci se si cade rovinosamente.
In parallelo, Maserati ha perso il focus e l'identità, insegnamenti chiave di Al Ries, mentre i concorrenti se la ridono dai loro attici dorati (Ferrari, Porsche, Lamborghini ringraziano per l'incauta strategia altrui).
Dal boom al baratro: breve storia di un declino
Per contestualizzare il crollo attuale, vale la pena ricordare che non più tardi di qualche anno fa Maserati sembrava aver ingranato la marcia giusta. Nel 2017, grazie all'espansione della gamma e all'onda lunga del primo SUV Levante, la casa del Tridente ha toccato il record storico di 49.000 vetture vendute. Sembrava l'inizio di una nuova era dorata: da marchio di nicchia (appena 3.000 unità l'anno nei primi anni 2000) a attore rilevante nel segmento luxury globale.
Ma è stata un'illusione di breve durata. Nel 2015, proprio al lancio della Levante avevo annunciato come data la fragilità del brand, questo tipo di estensione di linea avrebbe portato solo una fiammata di breve durata.
È infatti già nel 2018 le vendite hanno iniziato a calare a picco: -29% sul 2017, seguite da un altro -26% nel 2019. Un vero ottovolante: su rapidamente e giù ancora più velocemente. Colpa di un mix letale: modelli invecchiati e mancanza di ricambio generazionale, soprattutto nelle berline Ghibli e Quattroporte lasciate languire sul mercato senza aggiornamenti tempestivi.
Il Levante da solo non poteva sostenere il castello. Nel 2020 ci si è messa pure la pandemia e, nonostante qualche timido segnale di ripresa con nuovi lanci nel 2021-2022 (la supercar MC20, il SUV medio Grecale, la nuova GranTurismo...), le cifre sono rimaste desolanti. Nel 2024 Maserati ha venduto appena 11.300 auto, meno perfino di Ferrari e con cali accentuati nei suoi mercati tradizionali come Italia e USA.
Siamo al punto che un marchio di ultra-lusso come Lamborghini oggi vende un numero di auto simile (se non superiore) a Maserati, pur costando mediamente il doppio e senza fare sconti di fine stagione.
Questo scenario da incubo non è piovuto dal cielo. È figlio di scelte strategiche ben precise (per quanto, col senno di poi, scellerate). Andiamo allora ad analizzare dove Maserati ha infranto le leggi fondamentali del marketing e come i concorrenti hanno invece evitato certi errori.
Le leggi del marketing ignorate (e calpestate)
Al Ries e Jack Trout nel loro classico Le 22 immutabili leggi del marketing ci avevano messo in guardia: "Se ignorate queste leggi, è a vostro rischio e pericolo". Maserati, a quanto pare, si è sentita immune a questo richiamo quasi fisico del mercato. Ecco le principali leggi che il Tridente ha fatto a pezzi:
1. La Legge del Focus – "Il concetto più potente in marketing è possedere una parola nella mente del cliente". Per decenni Maserati possedeva forse il concetto "eleganza sportiva italiana": coupé e berline dal fascino unico, motori Ferrari rombanti, interni da sartoria.
Negli ultimi anni ha perso completamente il focus. Ha cercato di essere tutto per tutti (aridanghete):
berlina business per fare concorrenza alle tedesche (Ghibli),
SUV per salire sul trend (Levante e poi Grecale),
supercar per non farsi mancare nulla (MC20).
Risultato? Nessuna di queste categorie la vede primeggiare o distinguersi chiaramente. La gamma è diventata dispersiva, il messaggio al mercato confuso.
Invece di possedere una parola, Maserati ora balbetta. Mentre Ferrari domina "prestazioni" ed "esclusività", Porsche "performance quotidiana", Lamborghini "estremo", quale parola possiede Maserati? Nessuna abbastanza forte da risuonare. Legge del Focus infranta in pieno.
2. La Legge dell'Estensione di Linea – Al Ries la chiamava "la tentazione irresistibile". Maserati ci è cascata con tutte le scarpe. Da tre modelli iconici a inizio anni 2000 (Coupé/Spyder e Quattroporte) è passata a infoltire l'offerta: ha introdotto
una berlina medio-grande (Ghibli) posizionata più in basso del Quattroporte,
poi un SUV (Levante),
poi un SUV compatto (Grecale),
e addirittura una supersportiva a motore centrale (MC20).
Estendere la linea verso il basso e verso categorie lontane dal core storico ha diluito l'identità del brand. Generando qualche fiammata iniziale per poi affossare ancora di più il brand già sofferente. Manovre da dilettante del marketing che non capisce che Porsche può fare cose che tu con un brand debole come Maserati non puoi imitare.
Il Ghibli, in particolare – pur vendendo bene all'inizio – ha "volgarizzato" il marchio: una Maserati a 70-80 mila euro, spesso scontata e piazzata nelle flotte aziendali e di noleggio, ha tolto esclusività al Tridente.
Vedere una Ghibli come auto di rappresentanza di medio livello o in fila tra le vetture a noleggio in aeroporto fa lo stesso effetto di trovare champagne Dom Pérignon servito alla spina nel bicchiere di plastica. Allo stesso modo, lanciarsi nel segmento SUV era quasi obbligatorio, ma farlo tardi (14 anni dopo la Porsche Cayenne) e senza un posizionamento superiore ha reso il Levante "uno dei tanti" SUV di lusso, non il SUV per eccellenza. E nemmeno la seconda scelta. Ma nemmeno la terza.
L'estensione di linea, se non sostenuta da un brand di acciaio e eccellenza assoluta, confonde i consumatori: "Maserati cosa fa esattamente? Auto sportive? SUV? Berline?" Oggi la risposta è nebulosa – segno che quella legge immutabile è stata ignorata.
3. La Legge della Percezione – "Il marketing non è una battaglia di prodotti, ma di percezioni". Che percezione ha oggi il pubblico di Maserati? Un tempo evocava classe e performance da Gran Turismo all'italiana. Oggi rischia di essere vista come la "Ferrari dei poveri" o la "BMW italiana mancata".
La gestione recente ha infatti sottovalutato l'importanza della percezione. Ad esempio, introdurre un motore diesel su una Maserati (sia pure per esigenze di mercato europeo) poteva sembrare sensato sul piano tecnico, ma a livello di immagine è stato deleterio: il sound e l'emozione di guida sono parte dell'incantesimo Maserati, e un diesel dall'accento ruvido rompe la magia.
Inoltre, spingere i volumi con sconti, km-zero e immatricolazioni a noleggio ha fatto percepire Maserati come un marchio in svendita, bisognoso di piazzare vetture a tutti i costi più che un oggetto del desiderio.
L'aura di esclusività e prestigio è evaporata, indipendentemente dalle qualità tecniche (buone o meno) dei modelli. Il mercato dell'auto di lusso vive di percezioni: meglio avere persone che sognano la tua auto e non possono permettersela, piuttosto che trovarne tante vendute ma magari reimmatricolate in fretta perché erano capricci passeggeri.
4. La Legge del Sacrificio – Questa legge insegna che per guadagnare qualcosa devi rinunciare a qualcos'altro. Maserati invece ha voluto "avere la botte piena e la moglie ubriaca".
In affanno da fatturato e carenza di ossigeno (soprattutto al cervello devo dire), ha inseguito i clienti delle berline tedesche e quelli dei SUV sportivi e quelli delle supercar e quelli delle GT eleganti... senza voler rinunciare a nulla.
In realtà, la rinuncia c'è stata eccome: Maserati ha rinunciato ad un posizionamento nitido, ha rinunciato alla coerenza storica pur di inseguire ogni possibile fonte di fatturato.
Avrebbe dovuto sacrificare qualcosa: ad esempio, lasciare ad Alfa Romeo il ruolo di sportiva "abbordabile" e tenere Maserati solo in fascia altissima, oppure concentrarsi su GT e berline e lasciare le supercar estreme ai cugini di Maranello.
Invece ha provato a essere presente ovunque, finendo col non eccellere in nulla. La legge del sacrificio ci ricorda anche che non si può piacere a tutti: meglio scegliere il proprio pubblico e servire quello in modo superbo, a costo di perdere gli altri. Maserati ha tentato di prendersi tutto il piatto e ha finito per rovesciarlo.
5. La Legge delle Risorse – Nelle 22 leggi si afferma che senza adeguate risorse (soldi, tempo, persone) un'idea non va lontano. Maserati ha ampliato la gamma ma non ha investito abbastanza per mantenere ogni modello al top del segmento.
Risultato: qualità percepita non sempre all'altezza del prezzo, tecnologia in ritardo (la prima Maserati ibrida è arrivata solo nel 2020 inoltrato, quando la concorrenza era già elettrificata), marketing poco incisivo nel cambiare le percezioni.
Se vuoi lanciare un SUV che faccia ombra a Porsche, devi metterci budget e cura maniacale; se vuoi una supercar che tolga il sonno ai Ferraristi, devi costruire anni di credibilità sportiva attorno al prodotto. Tutto questo richiede risorse (e focus): senza, restano solo bei piani su PowerPoint.
(Queste sono solo alcune delle leggi infrante… l'elenco completo sarebbe lungo. Fermiamoci qui per ora e vediamo come altri brand di lusso hanno evitato di cadere in queste trappole.)
Ferrari, Porsche, Lamborghini: loro il coperchio ce l'hanno
Si dice che "il diavolo fa le pentole ma non i coperchi". Nel nostro caso Maserati ha fatto la pentola (tanti nuovi modelli) ma si è scordata il coperchio (una strategia coerente). I concorrenti, invece, sembrano avercelo ben saldo quel coperchio strategico.
Ferrari è l'esempio lampante di focus e coerenza portati all'estremo (in senso buono). Per decenni a Maranello hanno venduto solo auto sportive a due porte, motori da corsa, prezzi stellari, zero concessioni al compromesso quotidiano.
Hanno sacrificato volutamente i volumi per mantenere un'aura esclusiva.
Vedere una Ferrari in strada è ancora un evento che fa girare la testa. Legge del Focus? Seguita alla lettera. Solo di recente Ferrari ha osato un'eccezione con il modello Purosangue (il suo "non-SUV"), ma l'ha fatto a modo suo:
produzione limitata,
prezzo stratosferico,
e soprattutto dopo aver consolidato per 70 anni un posizionamento ferreo sulla pura performance.
Un brand così forte, come dicevo anche prima, può permettersi un'eccezione senza degradarsi.
Maserati invece ha tentato di allargarsi senza prima aver fissato saldamente nella mente dei clienti chi fosse e cosa rappresentasse.
Porsche mi viene spesso citata come “successo nonostante l'estensione di linea”.
Ma attenzione: Porsche ha sì ampliato la gamma a SUV, berline e perfino auto elettriche, però ha investito risorse enormi e mantenuto una coerenza di fondo: ogni Porsche, che sia una 911 o un Cayenne, offre un'esperienza di guida sportiva sopra la media.
La casa di Stoccarda domina la percezione di "prestazioni sportive quotidiane": se vuoi un'auto che va fortissimo ma anche utilizzabile tutti i giorni, pensi a Porsche.
Inoltre, pur vendendo dieci volte le auto di Maserati, è riuscita a non banalizzare il brand, puntando sulla fedeltà e la soddisfazione dei clienti (basti vedere il valore che tengono le Porsche usate).
In pratica, per ogni legge del marketing che rischiava di violare, Porsche ha compensato con focus prestazionale, investimenti e cura maniacale del marchio, trasformando i potenziali "peccati" in successo. Certo, giocano in un campionato di risorse diverso (essere parte del gruppo Volkswagen aiuta), ma il succo è che hanno fatto bene ciò che Maserati ha fatto male.
Poi hanno capitalizzato su un brand forte mentre Maserati no e soprattutto hanno lanciato modelli “avanti” per primi nel mercato, quando Maserati è arrivata lunga invece di almeno 15 anni. Forza del brand e tempismo, contano tantissimo nel posizionamento di marca e nel marketing in generale.
Lamborghini offre un'altra lezione. Ha mantenuto per anni una line-up ristretta (due modelli di supercar, più dal 2018 un SUV, l'Urus) e un'identità fortissima: design estremi, prestazioni folli, atteggiamento da enfant terrible contrapposto all'aplomb di Ferrari.
Focus totale: per decenni niente quattro porte, niente "modelli economici". Quando ha introdotto un SUV, ha aspettato il momento giusto e nel limite del possibile l'ha Lamborghini-zzato al massimo: l'Urus sembra un caccia stealth su ruote ed è il più veloce e costoso del suo segmento.
Io come detto in passato avrei optato per un brand di super-suv completamente scollegato da Lamborghini per mettermi al riparo da Ferrari. Ma dato che Ferrari alla fine non ha mai realmente risposto alla Urus, il risultato è stato comunque diventare bestseller immediato e record di vendite senza che nessuno abbia pensato che il marchio si sia svenduto.
L'identità resta chiara e coerente: Lamborghini = eccesso “tamarro” e lusso senza compromessi. Maserati, nel tentativo di aumentare i volumi, non ha mantenuto un filo conduttore altrettanto chiaro. Soprattutto perché in primis non lo aveva proprio in partenza e avrebbe dovuto lavorare su quello invece che inseguire vendite effimere.
In sintesi, gli altri brand di lusso hanno fatto scelte migliori perché hanno rispettato molte di quelle leggi di marketing: chi seguendole fedelmente (Ferrari con focus ed esclusività), chi “sfidandole un po’” ma con enormi contromisure (Porsche con focus su performance, investimenti e qualità, Lamborghini con coerenza assoluta nell'esecuzione).
Maserati invece si è ritrovata in una terra di nessuno: né abbastanza esclusiva e focalizzata da reggere il confronto con Ferrari e Lamborghini, né abbastanza innovativa ed efficiente da impensierire Porsche. In altre parole, ha perso la sua distinta ragion d'essere.
Identità storica smarrita: dal mito al "meh"
Un altro tassello del declino Maserati è la perdita dell'identità storica. Parliamo di un marchio nato nel 1914, che negli anni '50 dominava la Formula 1 con Fangio e negli anni '60 costruiva gran turismo da sogno per star del cinema e capitani d'industria. Modelli come la Maserati Ghibli degli anni '60 o la Bora degli anni '70 erano status symbol al livello delle Ferrari coeve. La Quattroporte del 1963 inventò la berlina sportiva di lusso praticamente da zero.
Certo, la storia di Maserati è stata turbolenta (cambi di proprietà, crisi: dagli anni sotto Citroën al rilancio con De Tomaso, fino all'era Fiat-Ferrari). Ma fino a una quindicina d'anni fa Maserati aveva ancora un'aura definita: era l'alternativa italiana a Jaguar o Aston Martin, l'auto di chi voleva classe e sportività con un tocco artigianale.
Chi sceglieva Maserati sceglieva uno stile di vita: un sound di scarico inconfondibile, un pezzo di storia su ruote, un certo understatement rispetto alla Ferrari.
Negli ultimi anni, quell'aura si è sbiadita. Maserati ha iniziato a inseguire invece di guidare. Invece di far sognare con modelli dal carattere unico, ha rincorso i trend dettati da altri con grave ritardo e immagine da “lo fanno tutti mi ci butto anche io” tipico da neolaureato indottrinato dalla psico-setta della “market share” e della “brand awareness” dove si estende sempre e comunque al massimo possibile il brand in tutte le direzioni. Il problema è che:
la berlina "business" l'avevano già perfezionata i tedeschi,
il SUV sportivo lo aveva lanciato Porsche,
la supercar era terreno di Ferrari...
Maserati arrivava sempre dopo, in modalità me too, priva di quella visione spavalda che in passato l'aveva fatta emergere (come quando lanciò la prima Quattroporte mentre nessuno osava unire lusso e sportività così).
Anche sul design e sulla comunicazione il marchio ha perso mordente. Le Maserati recenti, pur eleganti, non hanno l'impatto iconico di una Ferrari SF90 o di una Lamborghini Aventador.
La comunicazione del brand è stata altalenante: si è passati da spot patinati col jet set a campagne tecniche sul prodotto, senza però mai toccare davvero il cuore del pubblico più giovane.
Nei garage dei collezionisti under 40, Maserati raramente compare nella lista dei sogni. Segno che l'appeal si è perso: i giovani appassionati oggi appendono poster di Ferrari, Lamborghini, magari di una Tesla, non certo di una Ghibli o di una Levante.
E la marketta di Damiano dei Maneskin come testimonial non è servita proprio a nulla e nulla ha fatto per invertire questa tendenza. Anzi forse ha finito per togliere a Maserati quell’ultima patina di eleganza che ancora aveva, con sto mezzo rockettaro pentito in salsa di biberon al latte che piace solo alle milf arrapate, che non sono decisamente il target di Maserati.
In breve, Maserati ha smarrito quel posizionamento che la rendeva desiderabile. Un brand è forte quando evoca subito un'immagine nitida: se dici "Ferrari" pensi a una monoposto rossa in pista; se dici "Lamborghini" vedi porte verticali e linee aggressive; se dici "Porsche" immagini una 911 in derapata controllata. Se dici "Maserati" oggi, l'immagine è confusa: forse una berlina elegante ma un po' anonima nel traffico, o un SUV visto tante volte.
Niente che faccia battere il cuore.
Un peccato mortale di marketing: dilapidare un capitale emotivo costruito in decenni.
La gestione Stellantis: freno o acceleratore sul declino?
In tutto questo, l'arrivo di Stellantis (il mega-gruppo nato dalla fusione FCA-PSA) ha rappresentato l'ultima svolta gestionale. Poteva essere un'opportunità di rilancio con nuovi investimenti, oppure – come avrebbe detto Al Ries – il colpo di grazia finale causa diluizione dell’attenzione al marchio in un mega-gruppo già confusionario di suo. A giudicare dai fatti, la seconda ipotesi sembra più vicina.
Infatti dopo la fusione nel 2021, Maserati è diventata uno dei tanti marchi nel portafoglio Stellantis, guidato dal CEO Carlos Tavares, noto per l'attenzione ai costi e ai margini.
In tale contesto, un brand come Maserati – che richiede investimenti sostanziosi e vendite relativamente basse – può essere visto più come un capriccio costoso che come un asset strategico. Le scelte fatte finora lo confermano: nuovi modelli chiave più volte rimandati, investimenti col contagocce, obiettivi ridimensionati.
Il nuovo Quattroporte e il nuovo Levante, inizialmente attesi attorno al 2024-25, sono stati posticipati al 2027 e 2028. In pratica, sul mercato resteranno fino a fine decennio le versioni attuali (progettate nel 2013 e 2016) con minimi aggiornamenti.
Un'era geologica nel settore auto. Significa competere nel 2025-2026 con vetture di oltre dieci anni fa: una missione suicida, a meno di non svendere (e svendere un lusso è la fine).
Nel frattempo, i piani elettrici di Maserati paiono esitanti: annunciano versioni Folgore (elettriche) dei modelli, ma poi le rimandano o ne producono pochi esemplari. La nuova GranTurismo Folgore, per dire, poteva dare un segnale forte, ma quanti ne hanno visti uno in strada o letto una prova entusiasta sui media? Quasi nessuno.
C'è poi la questione delle sinergie di gruppo: Stellantis punta a piattaforme e componenti condivisi (la futura architettura elettrica STLA su cui dovrebbero nascere anche Maserati). Bene per i costi, meno per l'esclusività: se la Maserati del futuro sarà una cugina stretta di una Peugeot o di una Opel sotto la pelle, addio ultimo tratto distintivo.
Finora Maserati aveva mantenuto una “certa” indipendenza tecnica (motori specifici come il V6 Nettuno, telai sviluppati in-house); uniformare tutto significherebbe spogliarla di ciò che la rende speciale sotto al vestito. Il cliente da 150-200 mila euro vuole credere di avere qualcosa di unico, non un clone lussuoso.
Infine, il segnale più preoccupante: i volumi produttivi ridotti all'osso (vedi quei 1.050 esemplari in tre mesi) suggeriscono che Stellantis non stia nemmeno premendo per vendere Maserati nel frattempo. Forse attendono la gamma nuova per rilanciare (nel 2025 è arrivato un nuovo CEO di Maserati, Antonio “Santo” Ficili, incaricato di cambiare rotta e “vendere diversamente”).
Ma nel frattempo:
la rete di vendita soffre,
i clienti fedeli invecchiano o migrano altrove,
e i nuovi manco sanno che cosa sia Maserati.
Un marchio auto non è un interruttore che spegni e riaccendi: se lo lasci dormire troppo, il pubblico lo dà per morto.
In sintesi, la gestione Stellantis finora sembra aver messo un freno (o premuto l'acceleratore verso il burrone) al declino Maserati. Pochi investimenti, poca chiarezza sul futuro, e la sensazione che nel grande mosaico di marchi Stellantis il Tridente sia il tassello sacrificabile.
Inoltre in casa c'è anche Alfa Romeo a presidiare il segmento sportivo-premium, e questa sovrapposizione non aiuta: due galli nel pollaio rischiano di beccarsi a vicenda, a danno di entrambi.
Cosa si sarebbe potuto (e dovuto) fare
Arrivati a questo punto, il bollettino è grave ma non necessariamente senza speranza (anche se ci spero molto, molto poco). Con il famoso senno di poi, è facile dire cosa Maserati avrebbe dovuto fare diversamente.
Ma non è in realtà “senno di poi”, perché le leggi del marketing sono immutabili e io il “de profundis” di Maserati ho cominciato a suonarlo ormai 10 anni fa, con tanto di articoli lì a dimostrarlo.
Proviamo comunque a tirare le somme, perché queste lezioni valgono per chiunque si occupi di marketing, non solo per l'industria auto.
- Mantenere il focus sul core storico: Maserati avrebbe dovuto scegliere con coraggio in cosa eccellere e concentrare lì i suoi sforzi. Ad esempio, poteva decidere di essere il marchio leader mondiale delle Gran Turismo di lusso: coupé e berline ad alte prestazioni, 2+2 posti, eleganti e velocissime.
E magari rinunciare alle tentazioni di fare la supercar da 330 km/h (lasciandole a Ferrari) o il SUV compatto. Così avrebbe posseduto una parola chiave chiara – "granturismo" o "berlina sportiva di lusso" – nella mente dei clienti.
Pensateci: nessuno oggi domina la categoria delle berline-coupé sportive di altissima gamma (Rolls e Bentley fanno lusso estremo ma non sportive, Ferrari non fa berline, Porsche con la Panamera è sportiva ma fredda).
Maserati poteva essere quella. Ma per farlo doveva anche saper dire dei no ad altre cose. E pagarmi una consulenza. Tirchiacci.
- Niente estensioni selvagge né compromessi al ribasso: Ampliare la gamma va bene, ma ogni mossa doveva essere studiata per non danneggiare il brand. Un Ghibli entry-level diesel da 250 CV a 60mila euro? È ovvio che sarebbe stato un danno d'immagine enorme.
Meglio vendere 5.000 Quattroporte l'anno a facoltosi entusiasti, che 15.000 Ghibli scontate che dopo 3 anni valgono la metà e affollano i piazzali delle usate.
Ogni nuovo modello introdotto doveva avere un posizionamento chiaro e superiore:
il Levante avrebbe dovuto essere fin da subito il SUV più sportivo ed esclusivo della categoria (ma lanciato molti anni prima, non in delittuoso ritardo!)
il Grecale andava evitato o lasciato ad Alfa Romeo.
In sostanza, sacrificare quantità per qualità e coerenza. Pochi modelli ma ottimi.
- Proteggere l'esperienza e la percezione del brand: Bisognava curare maniacalmente sia la qualità intrinseca del prodotto sia la sua narrazione. Vendendo meno auto, assicurarsi che ciascuna offra un'esperienza memorabile: servizio su misura, dettagli esclusivi, aggiornamenti costanti per stare al passo coi tempi.
E sul fronte marketing, raccontare una storia che faccia innamorare. Maserati avrebbe potuto spingere di più sul proprio heritage sportivo e artigianale: ad esempio tornando alle competizioni in modo visibile (non solo una Formula E quasi in sordina), creando eventi per la community dei clienti, enfatizzando l'italianità in un'epoca di prodotti sempre più simili in salsa teutonico - giapponese.
Insomma, far sentire chi compra una Maserati parte di qualcosa di unico e prestigioso. Ferrari lo fa benissimo (programmi esclusivi per clienti, club, musei), Lamborghini anche (raduni, track days). Maserati doveva coccolare di più chi le dava fiducia, invece di inseguire pubblici nuovi che non è riuscita a conquistare.
- Investire in innovazione mirata dove conta: Se c'era un trend da non perdere era quello dell'elettrico di lusso. Tesla ha fatto scuola nel high-end hi-tech, Porsche l'ha seguita con Taycan, e presto se non cambiano le cose profondamente, tutto il lusso rischia di essere elettrico.
Maserati, col suo DNA innovativo (fu tra le prime a usare biturbo negli '80, trazione integrale intelligente nei '90), poteva provare a essere la prima a offrire una GT elettrica di lusso italiana.
La GranTurismo Folgore è arrivata tardi e quasi sottotraccia. Invece di disperdere risorse in mille varianti di Ghibli e Levante, sarebbe stato più saggio diventare pionieri in un segmento emergente – ad esempio "la prima super-coupé elettrica italiana".
Questo avrebbe ridato al brand un'aura di avanguardia e una nuova parola da possedere (Folgore = EV di lusso), anziché apparire sempre in rincorsa. Ma anche qui quei soldi risparmiati in una consulenza con me sono costati cari (scherzo eh?)
- Dare a Maserati una gestione dedicata: Strategicamente, avrebbe giovato trattare Maserati come un'entità speciale, quasi indipendente all'interno del gruppo, con un team focalizzato e obiettivi di lungo termine.
Un po' come Ferrari (che addirittura è stata scorporata) o come fa VW con Lamborghini e Bentley, che pur nel gruppo hanno risorse dedicate e protezione del brand. Invece Maserati è sembrata oscillare tra l'essere accorpata ad Alfa Romeo e lasciata in balia di manager di passaggio.
Senza una visione solida e continuativa, ogni marchio perde la rotta. Serviva un "campione" interno che credesse nel potenziale di Maserati e la difendesse dai tagli miopi trimestre dopo trimestre.
In conclusione, per evitare la morte del brand servivano scelte anche dolorose ma lungimiranti: fare meno, ma farlo meglio. Riscoprire ciò che rende Maserati unica e puntare tutto lì, tagliando senza pietà ciò che la rendeva generica. Non è un concetto astratto: è esattamente ciò che predica da decenni Al Ries, ed è ciò che tutti i marchi di successo hanno fatto.
Epilogo amaro (ma non troppo)
Oggi Maserati si trova in terapia intensiva, attaccata al respiratore di poche vendite e in attesa di un miracolo sotto forma di nuovi modelli (o di una nuova strategia). Il crollo del 60% della produzione sembra più un epitaffio che un dato “congiunturale”.
Eppure, da modenese e inguaribile appassionato, una speranza la tengo con me: che dalle ceneri di questo marchio glorioso possa rinascere qualcosa. Magari qualcuno ai piani alti di Stellantis capirà che uccidere Maserati sarebbe un delitto culturale ancor prima che economico, e deciderà di investirci sul serio, con intelligenza, per far tornare il Tridente a brillare.
Nel frattempo, questa resta una case history perfetta per ogni marketer: ignorare le leggi fondamentali del posizionamento e del focus porta a disastri annunciati. Maserati ci è cascata in pieno, dimostrando che nessun nome, per quanto blasonato, è immune alle regole del mercato.
La prossima volta che qualcuno proporrà di "allargare un po' il brand per aumentare i volumi", ricordiamoci del tridente spuntato e della lezione che ci lascia: meglio essere fortissimi in qualcosa che mediocri in tutto. Tanto prima o poi il mercato presenta il conto, e non fa sconti neanche a Natale.
Tutto molto interessante, mi si è aperta una visione del marketing che ignoravo.
A me sembra io ripetersi di quello che il gruppo fece con Lancia. Anche lì, tantissima storia buttata alle ortiche, non riuscendo o non volendo caratterizzare il marchio. O sbaglio?