Ricordo perfettamente quando tanti anni fa, prima di conoscerlo di persona, lessi in uno dei libri di Al Ries un concetto semplice, quasi infantile, ma potentissimo: nel marketing, come nel gioco “carta-forbici-sasso”, la tua strategia migliore dipende da cosa fanno i concorrenti.
Non esiste una mossa assolutamente vincente in sé. Conta invece osservare il leader, comprenderne la posizione nella mente del consumatore e fare il contrario.
Pensate al leader di mercato come “sasso”: se lui sceglie sasso, voi dovete essere la carta; se sceglie forbici, dovete essere sasso; se sceglie carta, voi forbici.
Al mi raccontò una volta che questo è il segreto per dare un’identità forte a un marchio inseguitore: non essere una copia, non cercare di battere il leader sul suo stesso terreno, ma occupare il lato opposto nella mente del consumatore.
Quindi in sintesi:
niente copia
niente “Io sono meglio”
niente “ti diamo di più a meno”
Il caso di studio “evergreen”: Coca-Cola vs Pepsi
La Coca-Cola, da oltre un secolo, è percepita come l’autentica cola, la “cosa vera”, il marchio della tradizione, quello che bevevano i nostri nonni e genitori. Come si fa a competere con un brand così radicato, iconico, e universalmente riconosciuto?
La Pepsi ha trovato la sua leva andando nella direzione opposta: la Coca-Cola è percepita come “tradizione”, allora Pepsi ha puntato sull’ “essere per i giovani”.
È nata così negli anni ‘70 “La Generazione Pepsi” (Pepsi Generation), posizionando il brand come la cola dei giovani, dei ribelli, di chi guarda avanti.
Ed è stata l’unica strategia in grado di spostare l’ago della bilancia nel corso degli anni, nella battaglia tra i due colossi. Nessuna delle altre strategie di Pepsi ha mai funzionato. Nè orsi che ballano, né pinguini che vanno in scì, né scoiattoli con le flatulenze, niente.
Nessuna campagna “creativa” ha mai fatto minimamente la differenza o ha avuto un impatto reale come gli spot “Pepsi Generation” con Michael Jackson, Lionel Richie, Madonna e le altre icone Pop degli anni ‘80.
Ma parliamo dell’Italia con il caso studio di: Mole Cola
Mole Cola, introdotta nel 2012 a Torino e distribuita inizialmente anche attraverso Eataly, si è posizionata come una cola “italiana” e legata al territorio.
L’idea era quella di proporre un’alternativa locale a Coca-Cola e Pepsi, con ingredienti di qualità, filiera trasparente e un’immagine vicina alla tradizione gastronomica italiana.
La Mole (simbolo di Torino) sul packaging richiama esplicitamente un legame con il territorio, conferendo un carattere di “autenticità” e “italianità” che le grandi cola americane non hanno.
Tuttavia, sebbene ci sia l’idea di una differenziazione (ingredienti selezionati, partnership con luoghi e marchi del Made in Italy, posizionamento premium), è anche vero che non ha stravolto il concetto di cola in modo radicale. Il punto è tutto qui.
Non ha puntato su uno stile comunicativo o una categoria concettuale completamente diversa (ad esempio, non si è proposta come la “cola biologica” di riferimento, o la “cola del tutto naturale” in modo militante).
In sostanza, Mole Cola è riuscita ad apparire come un’alternativa locale di qualità, ma non ha costruito un’opposizione netta e memorabile rispetto ai leader.
Più che “fai il contrario”, ha applicato un “fai la versione italiana e eco-friendly”, il che può risultare apprezzabile per una certa nicchia, ma non necessariamente dirompente a livello di marketing.
Non appare certo come una “Coca-Cola versione sfigata locale”, anche perché ha fatto leva su distribuzione mirata (ad esempio Eataly), storytelling e immagine italiana.
Ma non ha raggiunto una massa critica tale da competere a livello globale con i colossi, rimanendo un’alternativa di nicchia, apprezzata da chi cerca qualcosa di diverso e locale, senza però scuotere il mercato come fanno i brand che davvero “ribaltano” la categoria.
Mole Cola ha bisogno di riposizionarsi se vuole avere maggiore successo.
Ma parliamo anche di Virgin Cola, già che ci siamo:
Il caso di Virgin Cola è ancora più chiaro come esempio di fallimento dovuto alla mancanza di una strategia differenziante.
Lanciata negli anni ‘90 dal Virgin Group di Richard Branson, la Virgin Cola si propose come “l’ennesima cola”, entrando in un mercato già consolidato e ultra-competitivo.
Non arrivò con un posizionamento che facesse il contrario di Coca-Cola o Pepsi, non propose un modello di distribuzione innovativo, un gusto radicalmente diverso o una comunicazione dirompente.
Puntava principalmente sull’estensione di linea del marchio Virgin, che all’epoca era sinonimo di musica, intrattenimento e avventura, ma non di bevande.
Virgin Cola non solo entrò tardi sul mercato (Coca-Cola e Pepsi dominavano già da decenni) ma non offrì nulla di nuovo: nessun posizionamento come la cola “salutista”, la cola “naturale”, la cola “porno”, la cola “mannara” (per i nuovi arrivati, sto scherzando eh? Non fate la cola mannara per cortesia) o una strategia di distribuzione che rompesse gli schemi.
Era solo un altro soft drink al gusto cola con un brand famoso dietro. Il risultato?
Il consumatore non aveva alcun motivo per abbandonare Coca-Cola o Pepsi, e la reputazione di Virgin nel campo musicale o dei viaggi non si tradusse in credibilità nella categoria delle bibite.
Così, Virgin Cola divenne sostanzialmente una copia senza un’anima propria, percepita come un tentativo un po’ forzato di Virgin di entrare in un mercato saturo.
Senza un posizionamento opposto, senza un messaggio distintivo, senza “fare il contrario” o introdurre reali innovazioni, finì per scomparire.
In sostanza, Virgin Cola insegnò un’importante lezione: entrare in un mercato consolidato senza un’idea chiara e fortemente differenziante, soprattutto se sei in ritardo, è una mossa quasi sempre destinata al fallimento.
Fai il contrario vale anche nel retail
Negli Stati Uniti, Home Depot è leader nel fai-da-te. Per anni i suoi enormi magazzini pieni di scaffalature grezze e corridoi affollati hanno attirato soprattutto un pubblico maschile, pratico e orientato al prezzo. Come contrastare un leader così dominante?
Lowe’s ha scelto di fare il contrario: negozi più ordinati, illuminazione gradevole, corsie ampie e un ambiente più “pulito”.
Questo approccio ha attratto un pubblico femminile e una clientela più orientata al comfort, trasformando Lowe’s nel rivale più credibile di Home Depot. Al tempo Al diceva sempre: “Se il leader è caotico, sii ordinato. Se il leader è per esperti, sii per neofiti.” Funziona ancora oggi.
Anche in Italia il mercato del “fai-da-te” vede la presenza di diversi player con posizionamenti distinti, spesso ricorrendo a strategie opposte per differenziarsi:
Bricoman (del Gruppo Adeo, lo stesso di Leroy Merlin) si presenta con un formato più essenziale e orientato al professionista o all’appassionato esperto.
I suoi punti vendita somigliano a grandi magazzini con scaffalature semplici, esposizione minimale, e un focus forte sul prezzo e sull’ampia disponibilità di materiali tecnici. È un ambiente più simile all’approccio “stile magazzino” di Home Depot negli Stati Uniti, pensato per chi sa già cosa cerca e vuole spendere meno.Leroy Merlin, sempre all’interno dello stesso gruppo, ha adottato un approccio più “invitante” e formativo. I suoi negozi sono spesso più ordinati, con un lay-out più chiaro e una migliore illuminazione, corsie ampie, spazi espositivi curati e un assortimento presentato in modo da ispirare idee. Inoltre, Leroy Merlin organizza spesso corsi, workshop e momenti formativi, pensati per i neofiti del fai-da-te, chi desidera imparare, chi cerca suggerimenti e non è solo alla caccia del prezzo più basso. Questo la rende più attraente per un pubblico che non è per forza esperto, inclusi clienti femminili, giovani coppie o semplici appassionati alle prime armi.
Brico Io o Bricocenter (entrambe reti di punti vendita di dimensioni più contenute, spesso legate ai centri urbani) optano per un posizionamento ancora diverso: negozi più piccoli, prossimità e servizio al cliente, facilmente raggiungibili per acquistare velocemente materiale di base senza fare la “spesa grossa”. Non puntano su enormi spazi né su forti sconti, ma sulla comodità, la vicinanza, la facilità d’accesso per chi abita in città e magari non vuole affrontare lunghi tragitti fino ai grandi store in periferia.
In questo modo, anche in Italia possiamo vedere la strategia del “fai il contrario” (sia tra concorrenti che da medesimi gruppi che lanciano un secondo brand per “farsi concorrenza” intelligentemente da soli:
da una parte formati più “professionali” e “caotici” (in termini di impatto visivo) come Bricoman, e dall’altra concept più “user-friendly” e ordinati come Leroy Merlin, che puntano a un pubblico più trasversale e meno esperto.
Il risultato è un panorama dove ogni insegna trova il proprio spazio differenziandosi non cercando di essere semplicemente “più economica” o “più grande”, ma offrendo un’esperienza in contrasto (più ordinata, più formativa, più vicina) rispetto ai concorrenti leader.
Walmart vs Target: due polarità opposte
Walmart è il più grande discount generalista del mondo, prezzi bassissimi e target popolare. Target, per differenziarsi, ha puntato sul design, sull’estetica accessibile.
“Cheap chic” è stata la formula vincente: mentre Walmart spingeva sul risparmio estremo, Target offriva prodotti un po’ più curati, attirando una clientela leggermente più benestante.
Il terzo incomodo, Kmart, che tentò di copiare l’uno e l’altro, è finito in bancarotta.
Questo ci ricorda che non basta essere “un po’ migliori” su un aspetto: bisogna giocare una partita diversa.
Pensiamo all’Italia: il gruppo Percassi ha KIKO nel beauty a prezzi contenuti ma trendy, e allo stesso tempo sul mercato troviamo Sephora (parte del gruppo LVMH), posizionata più su lusso e varietà.
Un terzo player che si limitasse a fare “una KIKO con prodotti un po’ più cari” o “una Sephora un po’ più economica” rischierebbe di rimanere intrappolato, senza un posizionamento chiaro.
Strategie “migliori di” vs “fai il contrario”
“Meglio del leader” non basta. Al ricordava sempre che Burger King ha fallito per decenni nel tentativo di battere McDonald’s sullo stesso terreno (menu per bambini, parchi giochi, promozioni).
Per anni se McDonald’s aveva i giocattoli, Burger King li rendeva più grandi; se McDonald’s aveva Ronald, Burger King inventava un suo personaggio a forma di Re.
Ma nessuna di queste azioni “migliori” ha mai portato a un ribaltamento di posizioni. Il leader rimane leader.
Incredibilmente, all’inizio Burger King aveva centrato perfettamente la sua strategia di “fai il contrario” nei confronti di McDonald’s:
Nel 1973, Burger King lanciò un jingle in risposta alla canzone del Big Mac di McDonald's. Il testo diceva che Burger King ti avrebbe servito un hamburger personalizzato (ad esempio, con tutti i condimenti che volevi, o anche semplice), secondo il suo slogan "Fallo a modo tuo", e che lo avrebbe fatto con piacere:
(Ritornello) Fallo a modo tuo, fallo a modo tuo! Fallo a modo tuo da Burger King!
Senza sottaceti, senza lattuga; gli ordini speciali non ci danno fastidio. Ti chiediamo solo di lasciarcelo servire a modo tuo...
Possiamo servirti il tuo Whopper di manzo alla griglia fresco con tutti i condimenti o come preferisci; fallo a modo tuo...
(Ritornello) Fallo a modo tuo, fallo a modo tuo! Da Burger King, mangia da Burger King!
Poi negli anni successivi questo posizionamento straordinario, dato che era troppo intelligente, venne abbandonato in favore di campagne gestite dai creativi. Una galoppata di schifezza fino ad arrivare all’apoteosi del bisogno di 104 col panino ammuffito che tutti ricordiamo:
Per chiarire meglio, Burger King ha occupato per anni saldamente la posizione di numero 2 nel mercato dei fast food, dietro all'indiscusso leader McDonald's. Il suo posizionamento era chiaro: un'alternativa a McDonald's, con un focus sulla personalizzazione ("Have it your way") e sul gusto del cibo grigliato alla fiamma ("Flame-Broiled"). Questo si rifletteva nella loro iconica pubblicità del 1973, come abbiamo appena detto. Questo approccio gli aveva garantito una quota di mercato significativa e una clientela fedele.
Fai il contrario! Fai il contrario! Fai il contrario!
L'inizio del declino: allontanamento dall'identità
Tuttavia, a partire dagli anni 2000, Burger King ha iniziato ad allontanarsi dalla sua identità consolidata, perdendo progressivamente terreno. Diversi fattori hanno contribuito a questo declino:
Inseguire McDonald's: Invece di rafforzare il proprio posizionamento, Burger King ha iniziato a imitare McDonald's, lanciando prodotti simili (come il Big King, palese copia del Big Mac) e adottando strategie di prezzo aggressive. Questo ha diluito l'identità del marchio e confuso i consumatori.
Messaggi di marketing incoerenti: Le campagne pubblicitarie sono diventate frammentate e spesso controverse. Si è passati da slogan iconici come "Have it your way" a messaggi bizzarri e talvolta fuori luogo, che non risuonavano con il pubblico.
L'introduzione della mascotte "The King", un personaggio inquietante e silenzioso, è un esempio emblematico di questo periodo di confusione creativa. Si può dire che questo sia stato l'inizio del declino di Burger King come solido numero 2 del settore.
L'abbandono del proprio posizionamento distintivo per inseguire McDonald's sul suo stesso terreno ha portato a una serie di campagne di marketing fallimentari e confuse. Queste hanno offuscato l'immagine del marchio e allontanato la clientela.
Immaginate invece se Burger King si fosse posizionato come la catena per adolescenti e giovani adulti che vogliono più gusto e meno infantilità, come Al una volta suggerì (spoiler, la sua idea venne rigettata dal super-mega-manager laureato ad Harvard).
Invece di altalene e scivoli, hamburger alla griglia per palati più maturi. Oppure, in anni più recenti, guardiamo a come Shake Shack, Five Guys o In-N-Out hanno sfidato il fast food classico offrendo qualcosa di diverso: ingredienti freschi, ambiente hipster, menu ridotti.
Non cercano di essere “migliori” nello stesso gioco,
ma propongono un gioco diverso.
Anche in Italia, per restare nella ristorazione, consideriamo Cremonini con Roadhouse. McDonald’s (di cui lo stesso Cremonini è comunque fornitore) è fast food industriale; Roadhouse è steakhouse informale, ma con un’attenzione diversa al tipo di carne e al servizio al tavolo. Non è una copia con qualche ritocco: è un altro format.
Cremonini era proprietario di Burghy per chi non se lo ricordasse e rimanendo de facto come fornitore di McDonald’s avrebbe avuto tutta la tecnologia di questo mondo per trovare il modo di “clonare” di nuovo il format e fare un nuovo fast food. Ma non l’ha fatto. Ha scelto di andare a prendere quelli più cresciuti che da McDonald’s non vanno più.
Stesso vale per il Gruppo Pizzium che applica il principio del “contrario” di Al Ries splendidamente a sè stesso. Avendo già la pizza napoletana classica in Pizzium, ha creato Crocca per la pizza sottile.
Invece di fare la “stessa pizza ma più buona”, hanno fatto il contrario su un altro aspetto (stile di pizza, format, offerta), differenziandosi.
Altri esempi di “fai il contrario”
Apple rispetto a Microsoft: quando tutti vendevano PC attraverso rivenditori e OEM, Apple puntava sui propri negozi monomarca, sull’esperienza e il design. Non ha cercato di battere Microsoft sui fogli Excel o sul prezzo, ma ha fatto il contrario: semplicità, ecosistema chiuso, controllo dell’hardware.
Tesla rispetto alle case auto tradizionali: i brand storici avevano concessionari e reti complesse, Tesla ha venduto online e con showroom diretti. Non ha cercato di essere “un po’ migliore” del concessionario, ha saltato il passaggio, facendo il contrario. (senza considerare che è l’unica con focus “full electric”)
Moncler rispetto ai marchi di abbigliamento sportivo di massa: mentre Nike o Adidas puntano sulla performance e il prezzo accessibile in certi segmenti, Moncler si è posizionata come ultra-premium nel mondo dell’outerwear. Non una giacca sportiva economica, ma l’opposto: lusso, status e design.
Ma come insegna il maestro Yod-al basta solo guardarsi intorno e notare infiniti esempi anche nel mercato italiano in cui il “fai il contrario” si è rivelato o potrebbe rivelarsi una strategia vincente:
1. Eataly vs la GDO tradizionale
GDO tradizionale (Esselunga, Coop, Conad): grandi supermercati, con ampia scelta e prezzi competitivi, spesso in luoghi facilmente raggiungibili e frequenti promozioni. Un modello basato sulla standardizzazione e il risparmio.
Eataly: nata a Torino, ha scelto l’opposto: un format più simile a un “mercato esperienziale”, focalizzato sulla qualità, sulla trasparenza della filiera, su prodotti di eccellenza, degustazioni, ristorantini interni, corsi di cucina ed eventi culturali. Non ha cercato di essere “un supermercato leggermente migliore”, ma ha puntato sulla qualità e sull’esperienza, differenziandosi radicalmente.
2. Illy vs la massa delle cialde a buon mercato
Marche di caffè commerciali: da Lavazza a Segafredo, fino a molte private label, si concentrano sul prezzo, la distribuzione capillare e la riconoscibilità di largo consumo.
Illy Caffè: Andrea Illy, (tra le altre cose amico e cliente di Al Ries in persona) ha fatto il contrario, proponendo un’immagine di perfezione, qualità elevata e gusto costante, con monorigine selezionate e un posizionamento premium. Non cerca di essere il caffè più economico o più facilmente reperibile, ma il caffè di qualità superiore che si rivolge a un consumatore esigente. Di conseguenza, Illy ha costruito un’immagine di brand ben distinta rispetto alle alternative più popolari e diffuse.
3. Ducati vs i giganti giapponesi
Honda, Yamaha, Suzuki, Kawasaki: grandi costruttori di moto giapponesi, conosciuti per affidabilità, prezzi competitivi, gamma ampia e tecnologia d’avanguardia.
Ducati: ha scelto di non competere facendo una “Honda italiana”, ma di puntare su design distintivo, stile, suono del motore unico (il bicilindrico), carattere sportivo, prestigio, esperienza di guida emozionale. Ducati non prova a scendere sullo stesso piano del prezzo e dell’affidabilità di massa giapponese, ma ha creato il suo spazio nell’immaginario del motociclista come moto dal carattere passionale e ricercato.
4. Brunello Cucinelli vs il fast fashion
Zara, H&M, Primark: fast fashion globale, prezzi accessibili, collezioni in continuo ricambio.
Brunello Cucinelli: ha fatto l’opposto: invece di “moda a basso costo e alta rotazione”, propone filati pregiati, cashmere d’élite, prezzi elevati, produzione lenta, sostenibile e artigianale in un borgo umbro. Non è “Zara migliore”, è proprio un altro mondo. Così si è ritagliato uno spazio nel lusso italiano, esportandolo in tutto il mondo.
5. Banca Mediolanum vs le banche tradizionali
Banche tradizionali (Intesa Sanpaolo, UniCredit): filiali fisiche diffuse, servizi standard, uffici nei centri città.
Banca Mediolanum: si è posizionata da subito come “la banca costruita intorno a te”, puntando su consulenti finanziari che vanno dal cliente, servizio telefonico e online sin dagli anni Novanta, molta personalizzazione, e un brand ambassador come Ennio Doris che raccontava un modello diverso. Invece di essere un’altra banca con filiali ovunque, Mediolanum ha fatto l’opposto: una banca “senza filiali” (o con filiali ridotte) e più orientata al cliente, anticipando le neobanche di oggi.
6. Moleskine vs la cancelleria di massa
Quaderni e agende di largo consumo (Fabriano, Pigna): prodotti scolastici o da ufficio, prezzo basso, distribuzione capillare.
Moleskine: l’opposto. Ha preso l’idea del taccuino d’autore (in passato usato da artisti e scrittori), lo ha trasformato in oggetto di culto, premium, con storytelling sulla creatività, posizionandosi all’opposto della cancelleria anonima. Non è “un po’ meglio di Pigna”, è un altro concetto: lifestyle, design, status.
In sintesi
Questi esempi italiani mostrano che la strategia del “fai il contrario” non si limita ai grandi colossi internazionali. Anche aziende e brand nazionali hanno saputo ritagliarsi uno spazio importante nel mercato prendendo la direzione opposta rispetto ai leader consolidati. Invece di provare a vincere sullo stesso terreno, hanno creato nuovi parametri di confronto, posizionandosi come l’alternativa diversa, unica, riconoscibile.
La lezione di Al Ries
Ricordo come se fosse ieri Al che mi ricorda di non sottovalutare mai la potenza del “fai il contrario” e mi aiutò a capire come differenziarmi nettamente nel mio settore per raggiungere la cima della montagna.
E allora quando tutti nel mio mercato magnificavano Kotler e il marketing ampolloso e di difficile decodifica, io portavo alle PMI il marketing a risposta diretta e il posizionamento di marca.
Quando tutti erano formali, cravattoni, professoroni del marketing dal linguaggio forbito e nelle torri d’avorio, io usavo il linguaggio da spogliatoio del piccolo imprenditore (che smadonna perché non gli han pagato una fattura o un collaboratore ha appena fatto cadere un pacco dal muletto in magazzino).
Quando tutti facevano consulenza e formazione “a casa” delle aziende clienti, io facevo il contrario e riempivo i palazzetti di persone che facevano i km per venire a vedere me, come se fossi una rockstar.
Quando gli altri formatori mainstream strizzavano l’occhio a persone del network marketing, a ragazzini confusi e suggestionabili e opportunity seeker che cercano sempre “il business che funziona senza fare niente” e “il prodotto che si vende da solo”, io mi focalizzavo solo sugli imprenditori veri, con aziende vere e cacciavo fuori dai miei eventi tutti gli stramboidi.
Quando nessuno comunicava online e tutti si tenevano stretti “i loro segreti” io per primo ho fatto il contrario. Ho prodotto quantità industriali di formazione gratuita e semi-gratuita tra articoli, libri, enciclopedie, blog, video, podcast e anche corsi in modo che chi non fosse ancora pronto o deciso su cosa fare nella vita, potesse accedere a formazione di qualità senza pagare nulla. (E sto continuando ancora oggi proprio con questo articolo).
In sintesi, quando l’azienda leader ha consolidato un posizionamento, voi dovete andare nella direzione opposta. Se il leader è tradizione, voi siete innovazione; se il leader è per tutti, voi siete per una nicchia specifica e aspirazionale; se il leader è disordinato, voi siete ordinati.
Cercare di migliorare un aspetto del leader mantenendo la stessa direzione è come affrontare sasso con forbici. Non vincerete.
Guardate ai casi come Kmart e Burger King: hanno inseguito i leader provando a batterli sul loro terreno e hanno fallito. Invece, chi ha osato fare l’opposto (Lowe’s vs Home Depot, Pepsi vs Coca Cola, Target vs Walmart) ha trovato la strada verso una crescita significativa.
La regola è semplice:
Se non sei il numero uno nella tua categoria e non fai il contrario di ciò che fa il leader, il tuo marchio rischia seriamente di finire nei guai.
Come avrebbe detto Al: “Non sfidare sasso con sasso. Se vuoi vincere, fai la carta. Fai il contrario.”
PS: 5 segnali che il tuo posizionamento è debole
Ti è mai capitato di notare che:
Le tue campagne di marketing non sono efficaci?
Il tasso di conversione del tuo sito web e delle tue landing è basso?
I potenziali clienti non capiscono cosa ti differenzia dalla concorrenza?
La competizione si fa sempre più agguerrita e ti senti costretto a ribassare i prezzi?
Offri un prodotto o servizio migliore, ma i clienti non sembrano accorgersene?
Se hai risposto sì ad almeno una di queste domande, il problema risiede nel posizionamento di marca del tuo brand.
Non pensare che basti adottare nuove tattiche di marketing, aggiungere un nuovo canale di vendita o spendere di più in pubblicità per risolvere la situazione. Prima di tutto, devi lavorare sul tuo Posizionamento di Marca.
Detto terra terra, devi definire in modo chiaro e convincente cosa ti rende unico e speciale rispetto alla concorrenza.
Se vuoi rendere il tuo marketing più efficace, inizia col posizionamento. Solo così potrai comunicare in modo chiaro il valore del tuo brand e attirare i clienti giusti.
Hai bisogno di aiuto per definire il posizionamento del tuo brand?