Un vegano e un vegetariano saltano da una scogliera per vedere chi si schianterà per primo. Chi vince?”
“La società.”
Inauguriamo l’articolo di oggi con questa battutaccia pronunciata da un ragazzo giovanissimo a The Today Show in UK e poi iniziamo a parlare invece seriamente dell’argomento cibo “veg” dal punto di vista del marketing. Nessun vegacoso è stato realmente maltrattato con questa battuta, tranquilli. Speriamo non si incazzi la Lucarelli sennò possiamo chiudere baracca e burattini.
Ciò detto, si può andare “oltre la carne” e allo stesso tempo andare fuori strada? Beyond Meat ci è riuscita. Nata come la Tesla del cibo e finita come monito per un intero settore, la parabola di Beyond Meat sembra scritta dai manuali di marketing: all’inizio rispetta le regole e vola, poi le ignora e precipita.
In questo articolo scartiamo la confezione patinata e analizziamo il caso Beyond Meat attraverso le più pertinenti tra le “22 immutabili leggi del marketing” di Al Ries e Jack Trout. Scopriremo quali leggi hanno alimentato il suo successo iniziale e quali violazioni l’hanno portata a bruciacchiarsi in borsa. Preparatevi: sarà un viaggio tra hamburger vegetali, strategie azzeccate, errori saporiti e qualche risata amara.
Dalle stalle alle stelle (vegetali): il boom iniziale di Beyond Meat
Beyond Meat debutta in borsa nel 2019 e fa scintille sin dal primo giorno. Le sue azioni più che raddoppiano di valore alla IPO, passando da 25 a oltre 65 dollari in poche ore. In pochi mesi il titolo tocca un picco astronomico di 234 dollari. Non male per un’azienda che vende hamburger fatti di piselli e altri ingredienti non proprio naturali, vero? L’entusiasmo è alle stelle: media e investitori la definiscono “il futuro del cibo”, con investitori celebri come Bill Gates e Leonardo DiCaprio a scommettere su di lei.
Nel suo momento d’oro, Beyond Meat è il fiore all’occhiello del boom della carne vegana, la prima del suo settore a sbarcare a Wall Street. Sembra l’incarnazione vivente di almeno un paio di leggi immutabili del marketing: la Legge della Leadership e la Legge della Categoria. Vediamo perché.
Legge #1 – La leadership: «Meglio primi che migliori»
La prima legge del marketing, la Legge della Leadership, recita che è meglio essere il primo sul mercato che il migliore. Beyond Meat questo l’ha capito benissimo. Non è stata la prima azienda in assoluto a produrre alternative vegetali alla carne (i burger vegetali esistono da decenni), ma è stata la prima a mettere la bandierina nella mente del pubblico generalista. In altre parole, ha conquistato per prima la leadership nella percezione di una nuova categoria di prodotto.
Prima di Beyond Meat, i burger vegetali erano roba da vegani incalliti o salutisti di nicchia. Nessun marchio “meat-free” aveva mai fatto parlare il TG serale o invaso i menu dei fast food mainstream. Beyond Meat ha cambiato la storia: si è presentata come la marca di riferimento per la “carne vegetale” che imita quella vera, portandola al grande pubblico. Il risultato?
Quando si parla di burger vegetali succosi, la prima idea è il Beyond Burger – sinonimo di categoria. Essere primi nella mente delle persone, come insegna Al Ries, è fondamentale, e Beyond Meat ha rispettato in pieno questa legge dominando la nuova categoria nascente.
Legge #2 – La categoria: «Se non puoi essere il primo in una categoria, creane una nuova»
Corollario della leadership è la Legge della Categoria: se non puoi primeggiare in un settore esistente, creane uno nuovo dove sarai tu il leader. Beyond Meat non poteva certo battere Cremonini, Tyson Food o McDonald’s sul loro terreno (carne animale), così ha creato un nuovo segmento: quello degli hamburger vegetali “per carnivori”. In pratica ha preso un prodotto di nicchia (il veggie burger), l’ha perfezionato e rebrandizzato per il grande pubblico carnivoro/onnivoro, posizionandolo come alternativa ecologica e salutare alla carne.
Il genio di Beyond Meat è stato questo: non si è venduta come un semplice surrogato per vegani, ma come l’inizio di una rivoluzione alimentare. Ha fatto percepire al consumatore che esiste una nuova categoria di hamburger – quelli senza carne – di cui loro erano i pionieri indiscussi.
Essendo i primi in questa categoria, ne hanno dominato la narrativa. Come notato in un’analisi CNBC, “Beyond Meat was off to a sizzling start” o "Beyond Meat è partito alla grande", grazie proprio all’entusiasmo intorno ai prodotti plant-based migliori del passato.
Tradotto: hanno creato una categoria calda calda e ci si sono seduti in cima, con vendite in forte crescita alimentate dalla novità e dal miglioramento del gusto rispetto ai vecchi burger di soia insapore (ve li ricordate i burger Valsoia? Ecco… appunto.)
Legge #5 – La focalizzazione (e #13 il sacrificio): Una sola parola, un solo prodotto
Un altro ingrediente segreto del successo iniziale di Beyond Meat è la focalizzazione. Ries e Trout dicono che il concetto più potente nel marketing è possedere una parola nella mente del cliente (Legge della Focalizzazione).
Beyond Meat si è appropriata di una parola semplice e forte: “burger vegetale” (o magari solo “Beyond”, a suggerire qualcosa oltre la solita carne). Per alcuni, “Beyond” è diventato sinonimo di burger vegano che sa di carne, al punto che negli USA c’era chi andava da Burger King a chiedere “il Beyond” intendendo genericamente un panino senza carne – anche se magari servivano l’Impossible Whopper.
Quando il tuo brand diventa il nome della categoria, hai vinto (vedi Scotch che indica il nastro adesivo). Beyond Meat, almeno inizialmente, c’era riuscita.
Ma la focalizzazione non riguarda solo la comunicazione: significa fare una cosa e farla bene. Beyond Meat all’inizio ha (quasi) resistito alla tentazione di fare di tutto. Ha puntato tutto sul prodotto simbolo – il Beyond Burger – e su pochi altri item affini (per esempio qualche salsiccia vegetale).
In pratica ha sacrificato la varietà per la qualità, in linea con la Legge del Sacrificio, un’altra delle 22 leggi:
devi rinunciare a qualcosa per concentrarti su ciò che puoi davvero vincere.
Ad esempio, pochi ricordano che Beyond Meat inizialmente aveva provato a lanciare anche delle strisce di “pollo” vegetale. Sapete com’è andata? Un flop, e hanno tolto dal mercato quel prodotto per concentrare gli sforzi sugli hamburger.
Scelta saggia: sacrificare un ramo secco per far fiorire quello forte. Grazie a questa focalizzazione feroce, Beyond Meat nel suo periodo d’oro era sinonimo di “hamburger vegano top di gamma”. Il messaggio al consumatore era chiaro, semplice, univoco – e le casse registravano vendite a raffica.
Va detto che tutto questo è stato possibile anche perché Beyond Meat disponeva di ingenti risorse finanziarie (Legge #22 – Risorse). Non è una legge romantica, ma è la realtà: senza soldi non si cantano messe, né si cambiano diete globali.
Beyond Meat ha beneficiato di investitori col grano e di un’IPO da 241 milioni di dollari, carburante che ha permesso di finanziare ricerca, marketing aggressivo e partnership prestigiose. Le regole auree fin qui rispettate – leadership, categoria, focalizzazione – unite al capitale fresco, hanno acceso il turbo. Beyond Meat stava correndo a tutta birra… forse troppo.
Il morso amaro: le leggi tradite e il declino di Beyond Meat
Purtroppo, come spesso accade alle stelle che brillano troppo in fretta, Beyond Meat ha iniziato a deragliare. Dall’apice del successo (azioni alle stelle, titoloni entusiasti) è passata a un doloroso declino: nel 2022 aveva già perso l’80% del suo valore in borsa, e oggi siamo a un rotondo -95% dal picco.
Le vendite si sono raffreddate, l’azienda ha licenziato personale e chiuso impianti produttivi, registrando cali di fatturato a doppia cifra. Nel 2023 il fatturato è crollato del 18% (con perdite nette per 82,7 milioni di $) e le vendite negli Stati Uniti sono precipitate addirittura del -32%. Insomma, un mezzo disastro.
Cosa è andato storto? Molto, a quanto pare. Beyond Meat ha infranto alcune fondamentali leggi di marketing – gli dei del marketing si sono offesi, e l’azienda ne ha pagato le conseguenze. Vediamo le violazioni più clamorose.
Legge #12 – L’estensione di linea: troppa carne (vegetale) al fuoco
La Legge dell’Estensione di Linea è chiara: estendere indiscriminatamente una linea di prodotti può indebolire il marchio. In parole povere, se inizi a vendere di tutto, non sei più “focalizzato” su nulla. E indovinate un po’? Beyond Meat ci è cascata in pieno.
Dopo aver spopolato col suo burger, ha deciso di mettere sul mercato un intero zoo di prodotti alternativi:
salsicce vegetali,
macinato “Beyond Beef”,
polpette,
Beyond Sausage,
perfino il Beyond Jerky (lo snack tipo manzo essiccato).
Per non farsi mancare nulla, si è lanciata in partnership con mezza industria del fast food:
pollo fritto vegano da KFC,
tacos vegani da Taco Bell,
pizza con salsiccia veg da Pizza Hut,
e un tentativo di McPlant con McDonald’s.
Sembrava che ogni settimana ci fosse un nuovo prodotto Beyond sugli scaffali o un nuovo panino in edizione limitata in qualche catena.
Il risultato? Confusione e dispersione. La magia del Beyond Burger – su cui si reggeva l’immagine dell’azienda – si è diluita in una marea di esperimenti. Alcuni prodotti erano azzeccati, altri molto meno.
Ad esempio, il Beyond Jerky (snack tipo carne secca) è stato stroncato da molti consumatori e ha avuto problemi produttivi; le “pollo” nuggets vegane non hanno convinto e la collaborazione con KFC si è sgonfiata; il McPlant negli USA è stato un flop tanto da fermarsi alla fase di test.
In pratica Beyond Meat ha tradito la focalizzazione che l’aveva resa grande:
Da specialista degli hamburger è voluta diventare generalista di tutte le “carni finte”.
Questa bulimia di line extension ha avuto tre effetti tossici: ha confuso i consumatori, ha distratto l’azienda dal migliorare il suo prodotto di punta, e ha eroso la forza del brand.
Il consumatore medio ha iniziato a chiedersi: “Ma Beyond Meat cosa fa davvero di speciale? Il burger era buono, ma queste altre cose?”. Quando provi un nuovo prodotto Beyond e non ti entusiasma, ti cala anche l’amore per il marchio.
E se il marchio perde forza, si rompe la Legge dell’Esclusività (#6) – quella per cui due marchi non possono possedere la stessa parola nella mente: Beyond rischia di non possedere più nessuna parola distintiva, diventando un nome generico tra tanti.
Non solo: l’estensione di linea è costosa. Significa linee produttive diverse, R&D per nuovi prodotti, marketing frammentato per promuoverli.
Beyond Meat ha bruciato un sacco di risorse cercando di essere “tutto per tutti” invece di consolidare la propria leadership sull’hamburger vegetale.
Quando le vendite hanno iniziato a rallentare, si sono trovati con fabbriche in sovraccapacità (poi chiuse) e personale in eccesso (poi licenziato). Ironia della sorte, la Legge del Sacrificio – che avevano saggiamente seguito all’inizio – è stata poi ignorata: invece di sacrificare prodotti secondari per salvare il core business, hanno sacrificato la loro identità provando a rincorrere ogni opportunità.
E hanno perso. Come si dice? Chi troppo vuole, nulla stringe. Beyond Meat ha voluto strafare, e si è ritrovata con un pugno di mosche… anzi, di piselli.
Legge #18 – Il successo (e l’arroganza): montarsi la testa fa male alla salute (aziendale)
La storia di Beyond Meat conferma un altro principio intramontabile: la Legge del Successo. Ries e Trout ci mettono in guardia: il successo spesso porta arroganza, e l’arroganza porta al fallimento.
Dopo i trionfi iniziali, pare che in Beyond Meat qualcuno abbia iniziato a volare un po’ troppo alto con la fantasia. Quando vieni osannato come salvatore del pianeta, vedi i tuoi prodotti nelle vetrine dei supermercati più chic e le star di Hollywood ti strizzano l’occhio, è facile perdere il contatto con la realtà del consumatore medio.
Che segnali abbiamo di questa “sbornia da successo”? Ad esempio, nel 2021 Beyond Meat annuncia in pompa magna una partnership globale con McDonald’s (sembrava l’inizio di una nuova era, la McPlant era).
Purtroppo, poco dopo McDonald’s cancella silenziosamente il progetto in America per scarse vendite, lasciando Beyond Meat con un palmo di naso (e un -6% in borsa quel giorno). Forse i vertici di Beyond davano per scontato che bastasse il loro nome per avere successo ovunque – un segnale di eccesso di fiducia.
(ammazz’e zozzeria!)
Un altro esempio di mosse discutibili: nel 2022, con le vendite già in calo, Beyond Meat ingaggia Kim Kardashian come “Chief Taste Consultant”, sfruttando la celebrity per promuovere il gusto dei prodotti.
Ora, con tutto il rispetto per Kim K, ma se hai bisogno di una influencer per convincere la gente che il tuo cibo ha sapore... forse stai sperimentando la Legge dell’Hype (ci arriviamo fra poco) o stai disperatamente cercando di coprire problemi reali con glitter e paillettes. Mossa un po’ panem et circenses, indice che l’azienda cercava di comprare prestigio invece di guadagnarselo con i fatti.
Dietro queste scelte si intuisce una certa presunzione: “siamo Beyond Meat, la gente ci adora, se le vendite calano è colpa loro che non capiscono, quindi spariamogli l’endorsement vip”. Classico errore da successo mal digerito.
Intanto, segnale ancor più inquietante, dentro l’azienda volavano stracci – o meglio, morsi. Sempre nel 2022 il COO di Beyond Meat (nientemeno che il direttore operativo) viene arrestato perché durante una lite post-partita ha staccato a morsi il naso a un uomo.
Sì, avete letto bene: un top manager della “carne vegana” che diventa famoso per un atto di cannibalismo calcistico. Immaginate il danno di reputazione: un dirigente di Beyond Meat che addenta carne umana – roba che neanche in una puntata di South Park!
Questo episodio surreale ha fatto il giro del mondo, gettando ulteriore discredito su un brand già traballante. Quando il management perde così la bussola (e la calma), è il segnale che il successo è sfuggito di mano. E infatti l’azienda ha continuato a collezionare passi falsi.
Morale: se il successo ti fa sentire invincibile al punto da ignorare il feedback del mercato (gusto non all’altezza, prezzi alti) e gestire male l’azienda (espansioni avventate, figure barbine pubbliche), il tonfo è assicurato.
Beyond Meat si è montata la testa credendo di avere già vinto la guerra della carne, ma come ha osservato amaramente un analista, “doveva essere una disruption epocale… Non è andata così”.
Legge #20 – L’Hype: il clamore inganna, la sostanza vince (o perde)
Ricordate la clamorosa IPO di Beyond Meat di cui abbiamo parlato all’inizio? Tutti ne parlavano, titoloni ovunque, investitori in delirio. Ecco, la Legge dell’Hype ci mette in guardia proprio da questi fuochi d’artificio mediatici: la situazione reale è spesso inversa a quella descritta dalla stampa.
Più un’azienda sbraita su quanto rivoluzionaria sia, più è probabile che abbia qualche scheletro nell’armadio (o qualche burger bruciacchiato in cucina, in questo caso). Beyond Meat è stata sin dall’inizio circondata da un hype pazzesco, da aspettative irreali: “trasformerà per sempre l’industria della carne”, “metterà in ginocchio i ranch di bovini”, “salverà il pianeta riducendo le emissioni”.
Aspettative bellissime, per carità, ma esagerate rispetto allo stato dei fatti. Nel 2020-21, complice anche la pandemia che aveva acceso l’interesse per alimenti alternativi, le vendite di Beyond Meat hanno visto un boom (46% di crescita anno su anno nel 2020) e tutti a dire: “È fatta, la carne vegetale ha vinto”. Ma le leggi del marketing (e del buon senso) suggeriscono prudenza: un hype del genere spesso prelude a una delusione. Infatti, appena la moda si è raffreddata un po’, la realtà ha bussato alla porta.
Beyond Meat non aveva ancora un prodotto abbastanza buono o economico da giustificare quel livello di entusiasmo di massa a lungo termine. Quando le vendite hanno smesso di crescere all’infinito, gli investitori si sono svegliati dall’incantesimo: il titolo ha iniziato a crollare, riportando tutti sulla terra (anzi, sottoterra, visto il -95%...). Il caso Beyond Meat conferma la regola: più grande è l’hype, più rovinosa la caduta se manca la sostanza.
E qui entra in gioco anche la Legge dell’Accelerazione (#21): i programmi di marketing vincenti si costruiscono sui trend di lungo periodo, non sulle mode passeggere. Beyond Meat purtroppo ha bruciato le tappe cavalcando una moda alimentare che non aveva ancora solide fondamenta culturali.
Il plant-based meat era (ed è tuttora) un trend emergente, ma la sua adozione di massa è lenta e piena di ostacoli (culturali, economici, di gusto).
Beyond ha agito come se il cambiamento fosse già avvenuto, come se il mondo fosse pronto a rinunciare alla bistecca dall’oggi al domani. Ha spinto sull’acceleratore, crescendo velocissima – troppo. E quando si corre su terreno scivoloso, la sbandata è questione di attimi.
In USA, passata la curiosità iniziale, molti consumatori sono tornati alle vecchie abitudini (o non hanno mai smesso). Secondo dati riportati da Wired, l’entusiasmo post-pandemia per la carne vegetale ha continuato a scemare, e l’intero settore sta vivendo «un brutto momento».
Le vendite di “fake meat” nei supermercati americani sono calate, segno che per molti il prodotto era un fuoco di paglia più che una rivoluzione consolidata. Beyond Meat, da cavallo di razza di questo boom, ne è diventata il simbolo in negativo: “la parabola di Beyond Meat è diventata un monito sui rischi del comparto” scriveva Wired Italia. Insomma, troppo successo, troppo in fretta: quando la torta è fatta di moda effimera, si sgonfia presto.
Beyond avrebbe forse dovuto gestire in modo più misurato la crescita, concentrandosi sul costruire un amore duraturo con i clienti invece di inseguire valutazioni stellari in borsa. Per fare un paragone culinario: meglio una cottura lenta e costante che una fiammata iniziale che carbonizza tutto. Ma col senno di poi son bravi tutti, direte.
Giusto: per questo le leggi di Ries & Trout esistono da decenni, immutabili, proprio per evitare di cascarci. Non si chiamano “i 22 gentili consigli di marketing ma tanto voi siete più furbi” né “le 22 idee creative di marketing che ogni tanto potete guardare” o “i 22 suggerimenti ma fate un po’ come cazzo ve pare”.
Si chiamano “Le 22 Immutabili Leggi del Marketing” per un motivo preciso. Entiendes?
Legge #4 – Le percezioni: la battaglia si vince nella mente, non nello stomaco
Infine, il fattore forse più determinante del declino di Beyond Meat: la percezione del pubblico. All’inizio l’azienda ha beneficiato di una percezione positiva: il prodotto è innovativo, è “meatless” quindi fa bene, è sostenibile, è trendy. Ma col tempo questa narrazione si è incrinata.
Ed è qui che Beyond ha infranto la Legge delle Percezioni, dimenticando che il marketing non è guerra di prodotti ma di percezioni. Se la gente inizia a percepire negativamente il tuo prodotto, hai perso, anche se sulla carta il prodotto è valido.
Cosa è successo nella mente dei consumatori? Un po’ di tutto, niente di buono per Beyond. Primo: il gusto, per molti, non era all’altezza dell’hype. Tanti carnivori incuriositi hanno provato il Beyond Burger aspettandosi la folgorazione sulla via di Damasco (“Oddio, sa davvero di carne!”) e invece sono rimasti meh: buono, sì, ma non così buono da sostituire del tutto la cara vecchia carne bovina.
Soprattutto i consumatori occasionali, passato l’effetto wow iniziale, hanno trovato il sapore/odore un po’ artificiale. D’altronde, convincere un onnivoro incallito non è facile: se il tuo burger costa di più e non è identico al suo Big Mac, alla lunga molti tornano all’originale.
E infatti “le aspettative attorno al gusto ed all’esperienza non sono state soddisfatte” nota un’analisi. Quando il passaparola sul gusto reale (non quello immaginato) si è diffuso, ha smorzato l’entusiasmo di tanti potenziali clienti.
Secondo: il fattore salute. Beyond Meat inizialmente si è promosso come opzione più sana rispetto alla carne rossa (niente colesterolo, meno grassi saturi, ecc.). Tutto vero sulla carta.
Ma poi sono arrivati i nutrizionisti rompi-party (come anche il sottoscritto lo ammetto) a far notare che, beh, questi burger vegani sono comunque ultra-processati, pieni di ingredienti industriali, sodio e additivi.
Apriti cielo: sui social è partita la crociata del “è chimica, non cibo vero”. In breve tempo, la percezione salutistica di Beyond Meat è stata capovolta: da cibo healthy a schifezza ultra-processata. C’è chi lo chiama addirittura “finta carne di plastica”. Un’esagerazione? Forse, ma percezione batte realtà 3 a 0.
Come ha osservato molti esperti del settore food, “Processed, per molti consumatori, è antitetico a wellness, salute e “fa bene’”. Nella mente di molta gente “plant-based” avrebbe dovuto equivalere a naturale e sano.
Vedere una lista ingredienti lunga come un romanzo ha fatto scattare un campanello d’allarme. E quella che doveva essere la forza di Beyond (il beneficio salutare percepito) si è trasformata in una debolezza.
Terzo: il prezzo e la convenienza. Con l’inflazione in aumento, quei burger da 2-3 euro l’uno non sembravano più così allettanti, soprattutto rispetto alla carne vera spesso più economica. Negli USA la carne macinata tradizionale costava mediamente 4 dollari in meno al chilo rispetto alle alternative vegetali. Così molti, simpatie ecologiche a parte, hanno detto:
“Bello il Beyond, ma col mio budget meglio i macinati in offerta”.
Beyond Meat ha un po’ ignorato questa realtà, mantenendo un pricing premium anche quando i portafogli dei clienti iniziavano a piangere lacrime di coccodrillo. Risultato: un altro pezzo di mercato perso, perché nella percezione generale questi burger non valevano il loro costo.
Quarto: la comunicazione confusionaria. Qui Beyond Meat ha patito anche un contesto avverso: negli Stati Uniti si è politicizzato il dibattito su carne vs. plant-based. C’è chi (vedi certe lobby o ambienti conservatori) ha dipinto Beyond e soci come parte di un’agenda “radical chic” per togliere le bistecche all’americano medio.
Misinformazione o meno, questo rumore di fondo ha offuscato il messaggio dell’azienda. Beyond Meat dal canto suo non è riuscita a controbattere in modo efficace o a educare il pubblico. Anche perché nel frattempo doveva spegnere incendi interni (vedi crisi finanziarie, dirigenti che pigliano a morsi la gente e via dicendo).
Insomma, la comunicazione di Beyond è passata da visionaria (“Cambieremo il mondo proteggendo l’ambiente ad ogni morso”) a un po’ difensiva/confusa. Per il consumatore medio, il messaggio non era più chiaro:
“Ma quindi sto Beyond Meat fa bene o fa male? È per chi dieta o per chi vuole salvare le mucche? Perché dovrei comprarlo?”.
Quando le domande superano le risposte, la battaglia di percezioni è persa. (segnatevela questa. È gratis.)
In sintesi, Beyond Meat non è riuscita a vincere la guerra nella mente dei consumatori nel lungo termine. Ha lasciato che i concorrenti (diretti e non) ridefinissero la narrazione: i produttori di carne enfatizzano che la loro è “naturale, un solo ingrediente: il manzo”, mentre la “finta carne” è roba da laboratorio.
E i competitor vegetali, come Impossible Foods, nel frattempo hanno cercato di posizionarsi meglio (Impossible ha puntato tutto sul gusto identico alla carne, altri su ingredienti più naturali). Beyond si è trovata stretta: non era più l’unico giocatore, e nella mente del pubblico il suo profilo si è appannato.
La Legge delle Percezioni non perdona: “Il prodotto è ciò che è, ma la gente compra ciò che crede”. E troppi hanno finito col non credere più alla favoletta del burger miracoloso.
Riepilogo: lezione (vegetale) da portare a casa
Il caso Beyond Meat è un corso accelerato sulle leggi del marketing – rispettale e avrai gloria, infrangile e saranno guai. Vediamo i take-away principali di questa storia gustosa e agrodolce:
1. Sii il primo nella mente, possibilmente creando una nuova categoria. Beyond Meat ha vinto all’inizio perché ha occupato subito il nuovo territorio della “carne vegetale” nella mente di tutti. Ha capitalizzato sul vantaggio del primo arrivato (leadership) e sul fattore novità (categoria). Questo rimane un insegnamento chiave: in un lancio, chiediti in cosa puoi essere primo e memorabile.
2. Focalizzati sul tuo punto di forza e difendilo a tutti i costi. All’inizio Beyond Meat era focalizzata sull’hamburger e dominava quel concetto. Poi ha perso il focus tentando di fare di tutto: errore fatale. La legge della focalizzazione e quella del sacrificio ci dicono di rinunciare al superfluo e puntare al cuore del nostro successo. Meglio essere campioni in un segmento che comprimari in dieci.
3. L’arroganza da successo è un killer silenzioso. I primi trionfi di Beyond Meat hanno forse illuso il team che fosse infallibile. Si sono espansi troppo, hanno ignorato critiche su gusto e prezzo, pensando che la gente avrebbe comprato comunque. Sbagliato: il mercato non perdona. Umiltà e ascolto del cliente, sempre, anche (anzi, soprattutto) quando gli affari vanno a gonfie vele. Altrimenti, come vediamo, il ritorno sulla terra può far molto male (tipo perdere quasi tutto il valore in borsa).
4. Hype ≠ realtà: non credere alle tue stesse fanfare. Beyond Meat è stata vittima di un hype esagerato – alcuni direbbero anche auto-inflitto – che ha generato aspettative impossibili da soddisfare. Le aziende furbe usano l’hype con cautela: meglio promettere poco e dare tanto che il contrario. Se tutto il mondo ti acclama “game changer”, mantieni i piedi per terra e lavora come se dovessi ancora convincere tutti uno per uno. L’hype è un cappello di paglia: fa scena un attimo ma brucia subito.
5. Trend vs moda: costruisci per il lungo termine. Legato al punto sopra, Beyond Meat ha scambiato una fiammata per un incendio duraturo. Chi fa marketing deve riconoscere la differenza tra una moda passeggera e un vero cambiamento di consumo. Ok cavalcare l’onda, ma preparati quando l’onda cala: se vuoi stare sul mercato per decenni, devi adattarti e continuare a creare valore anche dopo che la novità svanisce. Tradotto: innovare nel prodotto (es. migliorare il gusto costantemente, cosa che Beyond ora sta provando a fare), ampliare il mercato con educazione, lavorare sul prezzo.
6. La percezione è realtà: cura ciò che i clienti pensano di te. Beyond Meat non ha saputo gestire il cambiamento di percezione: da rivoluzionario buono a costoso intruglio processato. Un disastro. Questo insegna che devi guidare tu la narrazione: ammetti magari i tuoi punti deboli (Legge dell’Onestà: un pizzico di candore a volte paga), spiega perché il tuo prodotto è comunque valido, controbatte alle obiezioni con fatti. Se lasci che siano i social o i competitor a definire come il pubblico vede il tuo brand, hai perso il controllo. E riconquistarlo è molto difficile.
In conclusione, Beyond Meat ci lascia una doppia lezione. Da un lato, è l’esempio brillante di come lanciare un’innovazione seguendo i principi classici del marketing: focus, differenziazione, timing perfetto. Dall’altro è un monito su quanto sia facile deragliare appena si tradiscono quei principi.
Le leggi del marketing sono “immutabili” proprio perché ogni volta che qualcuno pensa di fare di testa sua (magari ubriacato dal successo), finisce per sbatterci il muso – o far sbattere il muso a qualcun altro, nel caso del povero COO…
Beyond Meat voleva andare oltre la carne, ma ci mostra che non si può andare oltre le leggi del marketing senza pagare dazio. La prossima volta che vi godrete un burger (che sia di manzo o di piselli poco importa), pensateci: dietro quel morso ci sono strategie, errori e lezioni che vanno ben al di là del sapore.
E chissà, magari brindate mentalmente ad Al Ries e Jack Trout – perché anche un succoso fiasco può servirci da promemoria per non commettere gli stessi errori. Buon marketing (e buon appetito) a tutti!
PS: Vuoi apprendere velocemente le strategie di marketing necessarie a portare la tua azienda al successo evitando di cadere in trappole fatali come ha fatto Beyond Burger?
Frank un’altro libro hai scritto!
Io non ce la faccio più 😅
Con tutto quello che leggo sul circolo, quello che devo leggere e applicare dei libri ed i corsi ci mancavano questi fantastici pezzoni di marketing su Substack !
Una volta avevo del tempo libero, ora il mio cane a furia di sentire i tuoi video ti percepisce come uno di famiglia