Intervista a cura di Moreno Bonechi con Frank Merenda
Moreno Bonechi (M): Benvenuti a questa lunga, ma spero appassionante intervista con Frank Merenda. Oggi parleremo del “business perfetto” e di come i famosi guru del marketing descrivano l’azienda ideale.
Faremo però i conti con la realtà italiana, terreno spesso complesso per chi vuole avviare o far crescere la propria attività.
Prima di partire, però, lascio la parola a te, Frank. Vuoi introdurre brevemente l’argomento per i nostri ascoltatori?
Frank Merenda (F): Grazie Moreno! Sempre un piacere scambiare due chiacchiere con te, soprattutto quando c’è da sfatare un po’ di miti. “Business perfetto” è una definizione che fa sorridere, perché spesso evoca l’immagine di un’azienda che ti stampa utili h24, mentre tu sorseggi un cocktail alle Maldive.
Ecco, nella mia esperienza di piccolo imprenditore, formatore e – lasciamelo dire – anche “disilluso cronico”, ho capito che la perfezione è un miraggio. Ma esistono certamente dei principi che rendono le aziende più sane, più redditizie e, soprattutto, più scalabili.
Il punto è: come adattare questi principi al nostro contesto italiano? È quello che cercheremo di sviscerare oggi. Quindi, caro Moreno, spara pure le domande.
1. L’idea del “business perfetto”
M: Bene, cominciamo dalle basi. Quando si parla di “business perfetto”, spesso sentiamo parlare di ricavi ricorrenti, scalabilità, brand unico…
Insomma, una serie di concetti che sembrano la lista della spesa di un mix tra guru di marketing e capitano d’azienda di Silicon Valley. Potresti farmi un elenco di questi ingredienti “magici” così come proposti dai grandi nomi internazionali?
F: Certo. A forza di leggere libri, studiare e – perché no – confrontarmi con i top del marketing globale (e scontrarmi con la durezza del mercato), ho individuato alcuni ingredienti ricorrenti che i guru propongono per descrivere il “business ideale”. Provo a elencarli in modo ordinato:
Ricavi ricorrenti e clienti fedeli
L’ideale è non vendere solo una volta e poi addio, ma avere un modello che generi entrate ricorrenti: abbonamenti, canoni, manutenzioni periodiche, programmi di acquisto continuo.
Anche tra i miei maestri, Jay Abraham lo dice perfettamente con la sua massima:
“Ci sono soltanto tre modi per far crescere un business: aumentare il numero di clienti, aumentare il valore medio di ogni vendita e aumentare il numero di volte in cui i clienti tornano a comprare”.
In pratica, ottieni più clienti, ognuno spende di più e più spesso. Avere una base di clienti che riacquistano di continuo aumenta enormemente il valore dell’azienda.Prodotto unico e brand memorabile
Se sei percepito come una “commodity”, le persone ti scelgono solo per il prezzo. Se invece offri qualcosa di speciale, ti scegliamo perché “voglio proprio quello”.
Al Ries diceva: “Il marketing non è una battaglia di prodotti, ma di percezioni”.
Tradotto: conta la mente del cliente, non la realtà oggettiva. Devi occupare una nicchia, essere primo nella testa della gente per quella categoria.
Jeff Bezos riassume bene il concetto di brand: “Il tuo marchio è ciò che la gente dice di te quando non sei nella stanza”. Questo mi fa riflettere perchè non ricordavo di aver mai registrato la “Stronzo Maledetto SRL” (risate finte tipo sit-com anni ‘80 americana dalla regia, grazie).Scalabilità e sistemi che funzionano senza il fondatore
Per crescere in modo sostanziale, servono sistemi rodati, processi ripetibili, e un team di veri talenti. In sintesi per clienti strutturati ma soprattutto per banche e investitori, l’azienda di valore è quella che gira anche senza il fondatore appiccicato a tutto.
E Steve Jobs insisteva sempre: “La qualità è più importante della quantità. Un fuoricampo è migliore di due doppi”. Meglio avere poche persone-top che un esercito di mediocri.Margini alti, flussi di cassa robusti
Il business perfetto guadagna bene: margini ampi e cassa continua.
Bill Gates avverte di non focalizzarsi troppo solo sul breve termine: “La maggior parte delle persone sopravvaluta quello che può fare in un anno e sottovaluta quello che può fare in dieci”.
Bisogna pianificare a lungo, investire in ciò che genera valore e avere cuscini di liquidità per resistere alle crisi.Marketing efficace e niente “vanity metrics”
Non basta avere tanti follower se poi non incassi. Tra i miei insegnanti Dan Kennedy è forse il più schietto:
“Non puoi andare in banca e depositare i ‘mi piace’ o le visualizzazioni: vogliono soldi veri!”.
Quindi, sì ai social, ma misurando i risultati che contano (vendite, clienti fidelizzati).Tecnologia, automazione e dati
Inutile negarlo: chi sa raccogliere e interpretare dati, e usare l’automazione, fa decisioni più rapide e intelligenti.
Eric Ries (autore di Lean Startup) dice: “L’unico modo per vincere è imparare più velocemente di chiunque altro”. E non puoi imparare se non hai dati reali, in tempo reale.
Detta così sembra tutto facile, vero? Ecco, il problema è che in Italia potresti anche inserirli tutti, questi ingredienti, ma ti trovi comunque a sbattere contro un ambiente per nulla “siliconvalleggiante” – e infatti molti (e lo capisco perfettamente) restano scettici.
2. La realtà delle PMI italiane
M: Giusto, e qui arriva il bello. Raccontaci allora di questa “doccia fredda” tutta italiana. In che senso questi ingredienti, in Italia, sono più difficili da applicare?
F: Praticamente in tutti i sensi! (Ride) Il contesto nostrano è un rompicapo. Parliamoci chiaro: la dimensione media delle nostre imprese è ridicolmente piccola.
Secondo i dati, il 95% ha meno di 10 addetti. Le grandi imprese – con oltre 250 dipendenti – sono lo 0,09%.
Siamo un popolo di micro-imprenditori, negozietti, ditte individuali, che fanno fatica a delegare e a scalare. Il “business perfetto” lì non si incastra benissimo.
A questo si aggiunge una cultura imprenditoriale fortemente familiare. E non parlo di “famiglia” in senso affettuoso, ma di un vero e proprio vincolo di parentela che tende a soffocare il dinamismo.
Tradotto:
“Mio cugino è incapace, ma almeno è di famiglia, quindi lo metto come direttore vendite invece di assumere un manager”.
Ecco, questa logica del “familismo imprenditoriale”, riduce la fiducia verso gli estranei e blocca la nascita di una leadership manageriale professionale.
Esempio lampante: una microazienda potrebbe assumere un “giocatore di serie A” della vendita, invece però sceglie il parente, che non sa vendere granché ma è “affidabile”. E via, l’azienda resta piccola e fa fatica a crescere.
Poi, ci sono i soldi. Tante aziende italiane sono sotto-capitalizzate, hanno accesso limitato al credito, se va male due mesi di vendite si trovano già in crisi di liquidità, altro che investimenti in CRM e software di automazione.
O meglio, sono cose che proprio perché non crescono e sono piccoli dovrebbero assolutamente fare a maggior ragione, ma sono terrorizzati da ogni centesimo che esce dalla cassa, anche in modi spesso irrazionali.
Infine, non dimentichiamo burocrazia, tasse, infrastrutture traballanti, concorrenza sleale in nero. Il risultato? Un ambiente complesso e imprevedibile, dove risulta difficile applicare in toto le ricette provenienti dall’America.
E infatti oltre metà delle imprese chiude entro i primi 5 anni, e circa il 95% delle startup fa un capitombolo nel primo anno.
M: Caspita, statistica impietosa. Dunque, la maggior parte dei piccoli imprenditori non ha nemmeno le basi per sperare di arrivare a quei “famosi 5 milioni di utili” che interessano i fondi di investimento come spiegano i vari esperti di venture capital nei forum internazionali ai quali abbiamo partecipato?
F: Esattamente. Gli esperti di finanziamenti seguono spesso di logiche da “mega-business” che devono avere almeno 5 milioni di utili per essere interessanti agli occhi dei grandi investitori.
Ma la PMI italiana media non sa nemmeno come si fa il calcolo dell’EBITDA, figuriamoci 5 milioni.
E anche se volesse arrivarci, la struttura familiare e la scarsa propensione al rischio frenano tutto. Tanta gente preferisce restare piccola ma “controllare tutto”, piuttosto che assumere persone competenti e “rischiare” di allargare la proprietà o la governance. È un meccanismo autolimitante, ma è la mentalità tipica.
3. Adattare la “formula” al contesto italiano
M: Ok, fin qui lo scenario è piuttosto sconfortante. Ma l’obiettivo, spero, non è darci all’alcol e rassegnarci, giusto? Come possiamo fare un passo avanti in questa direzione, anche se non diventeremo la prossima Amazon?
F: Di certo non voglio sostenere che la situazione sia senza speranza. Altrimenti non faremmo il lavoro che facciamo. Anzi, ci sono idee buone, aneddoti concreti per adattare i principi dei guru internazionali al nostro contesto. Io stesso, nei miei corsi e articoli, cerco di spingere la gente a provare limitando i rischi il più possibile perché conosco perfettamente la situazione “di cassa” della maggior parte delle PMI.
Proviamo qualche suggerimento senza la presunzione di avere formule magiche? :
Avere una visione a lungo termine, ma non fare il passo più lungo della gamba
Significa pianificare su 1, 5, 10 anni. Non limitarsi al “speriamo di farcela a pagare stipendi a fine mese”.
E qui la frase di Bill Gates è illuminante: “Spesso sopravvalutiamo ciò che possiamo fare in un anno e sottovalutiamo ciò che possiamo fare in dieci”.
Quindi, anche se sei una microimpresa, cerca di immaginare dove vuoi andare.
Abbozza almeno un piccolo business plan, perché navigare a vista è un suicidio.
Se poi devi aggiustare la rotta strada facendo, non c’è nulla di male: impara dai dati e adatta. È il principio di Eric Ries: “L’unico modo per vincere è imparare più in fretta degli altri”. E se non hai dati, inventati piccoli esperimenti.Metti il cliente al centro (sul serio!)
Non è lo slogan scontato “il cliente è importante”. Se sei piccolo, ogni singolo cliente è fondamentale. Il passaparola in Italia è potentissimo, quindi un cliente soddisfatto ti porta altri clienti, uno insoddisfatto ti distrugge la reputazione al bar.
Kotler dice: “La migliore pubblicità è quella dei clienti soddisfatti”, e non puoi competere con un colosso sul prezzo, ma puoi essere imbattibile sulla relazione e sul servizio. E se sei bravo chiedere anche un piccolo premium-price che ti dia margini e ossigeno.
Questo è particolarmente adatto alle PMI italiane: sfruttate la vicinanza al cliente, personalizzate, ascoltate i feedback, create un rapporto di fiducia.
Io dico spesso ai miei studenti: “Se non entri nella testa (e nel cuore) del cliente, non stai facendo marketing: stai facendo una recita improvvisata”.
Ecco, la recita improvvisata non funziona granché con un cliente smaliziato come quello italiano.Focalizzati: trova la tua nicchia di eccellenza
Meglio essere i numeri uno in qualcosa di specifico, invece che vendere “un po’ di tutto” in modo mediocre.
Il mai troppo decantato Al Ries diceva: “Se non puoi essere primo in una categoria, creane una nuova in cui puoi esserlo”.
Quindi se hai un ristorante, magari non diventerai mai una catena come Eataly perché non hai le economie, le connessioni politiche e i finanziamenti alle spalle di Farinetti, ma puoi specializzarti in un piatto o in un’esperienza gastronomica unica della tua zona. Quello puoi farlo anche senza grandi capitali o tessere del partito giusto.
Se vendi online, individua una categoria di prodotto e domina la nicchia. La paura è perdere delle opportunità, ma la realtà è che la specializzazione ti dà un’identità.
E come dice Kotler: “Il marketing è l’arte di creare un valore autentico per il cliente”. Crei valore diventando il migliore in qualcosa, non facendo 10 cose maluccio.Usa il digitale in modo intelligente, senza farti fregare
La digitalizzazione spaventa molte PMI italiane, che si trovano con un sito obsoleto o zero presenza online. Ma oggi è suicida ignorare il web. Vorrei attaccare la pippa per darmi un tono sull’importanza dell’Intelligenza Artificiale ma capisci bene che oltre il 60% delle PMI in Italia non ha nemmeno un sito. Mi renderei “cool” ma ridicolo.
Cerca qualcuno di competente (non il “guru truffaldino” che promette clienti a fiumi in 7 giorni) e sperimenta gradualmente: un sito ben fatto, magari l’e-commerce se vendi qualcosa di adatto, una gestione social coerente.
E occhio alle metriche di vanità: come dice Dan Kennedy, non puoi depositare in banca i “mi piace”.
Misura contatti e vendite, non i like. Per esempio, se hai un’attività artigianale in un paesino, potresti usare un e-commerce di nicchia o piattaforme di artigianato online per vendere i tuoi prodotti unici, magari anche Amazon perché no, anche all’estero.
Certo, serve impegno e mi rendo conto delle difficoltà “tecnologiche” del piccolo imprenditore o artigiano, non sto sfottendo nè mancando di rispetto… voglio solo dire che è un canale potentissimo che ti consente di crescere senza dover aprire altri punti fisici.Professionalizzati e impara a delegare
È qui che casca l’asino (ride). Nella nostra cultura familiare, delegare a un estraneo è vissuto come “eh, ma non mi fido”, e cosi ci teniamo il cugino incompetente come direttore vendite.
Però se vuoi crescere un minimo, devi assumere o collaborare con persone più brave di te in certe aree.
Io lo dico sempre: “Se non ti stacchi da tutto, rimarrai incatenato alla micro-gestione e non avrai mai tempo per la strategia”.
Non significa che devi piazzare subito un supermanager, ma forse puoi trovare un buon venditore, un bravo contabile, un consulente marketing affidabile.
Delegare non è “perdere il controllo”, è liberare la tua mente per il futuro del business. Credo ci voglia un equilibrio: non siamo in Silicon Valley, ma possiamo comunque avviare un percorso di crescita graduale.
E ricordiamo che Elon Musk, pur dicendo “bisogna lavorare 80-100 ore a settimana per cambiare il mondo”, non è detto che sia un modello replicabile per tutti soprattutto a lungo termine (né sano! Io lo so perché l’ho fatto per anni, non per sentito dire).
Piuttosto puntiamo a fare nel lungo periodo dopo aver creato una buona struttura 10 o 20 o 30 ore ben pianificate, in cui però stiamo lavorando “sul business” e non stiamo spegnendo incendi ogni minuto.
Più facile a dirsi che a farsi me ne rendo conto, ma non pretendo sia una cosa che avviene dalla sera alla mattina. Bisogna crederci e avanzare un passettino alla volta nella direzione giusta.Mantieni uno scetticismo sano verso le scorciatoie e i guru dell’ultima ora
Di promesse miracolose è pieno il mondo. Non si contano i personaggi che ti promettono “ti riempio di clienti in 3 giorni con il mio funnel magico”. Sì, certo.
La mia raccomandazione è: impara, sì, ma filtra tutto con la conoscenza della tua realtà. Se hai solo 3.000 euro in banca, non li spendere tutti in una campagna social senza una strategia e senza testare prima.
E soprattutto, ricordati che la speranza non è un metodo. Devi pianificare e verificare con i numeri.
Steve Jobs diceva: “Metà di ciò che separa gli imprenditori di successo da quelli che falliscono è la pura perseveranza”. Al netto delle situazioni estreme, è vero: devi reggere i colpi, aggiustare la strategia, continuare a provare.
Non esistono scorciatoie dove ti svegli e hai un business da milioni.
Hai bisogno di aiuto con il marketing della tua azienda?
4. Gli ingredienti “classici” riletti in chiave italiana
M: Hai elencato tanti consigli. Mi piacerebbe ricollegarli in modo sistematico ai famosi “ingredienti” del business perfetto di cui parlavamo all’inizio. Come si combinano, in sintesi, con la dimensione delle imprese nostrane?
F: Ottima idea. Vediamo di riorganizzare:
Ricavi ricorrenti e clienti fedeli:
In Italia, i ricavi ricorrenti sono più rari rispetto ad altri mercati, ma non impossibili.
Si può pensare a formule di abbonamento (anche piccoli: piani di manutenzione, corsi ricorrenti, servizi di consulenza mensile) o sconti-fedeltà.
La chiave è capire come rimanere nella vita del cliente in modo continuativo.
Spesso mi capita di dire: “Non dire al tuo cliente ‘ci vediamo il mese prossimo’, digli ‘ogni mese abbiamo una novità e un check-up gratis se rimani abbonato’”. Bisogna ingegnarsi.Prodotto unico, brand memorabile:
La qualità artigianale italiana è famosa nel mondo. Possiamo sfruttare questa fama a nostro vantaggio, anche se siamo piccoli.
Creare un brand forte è questione di comunicazione onesta, storie vere, passione palpabile. In un certo senso, “brand memorabile” non significa per forza spendere cifre folli in pubblicità, ma avere un’identità chiara, un messaggio coerente, e trasmettere fiducia.
Da bambino ho sentito un imprenditore alimentare che vendeva formaggio a mio nonno dirgli: “Se c’è un segreto, è la trasparenza totale con il cliente su come produciamo: mostrargli la tradizione e fargliela toccare con mano”. Ecco, quello è comunicare il brand.
Oggi non serve più magari far fare il giro del caseificio o della malga ai clienti locali come una volta. Il web ti permette di fare tante cose impensabili allora. Ma il concetto rimane invariato.Scalabilità e team di talento:
Qui, la barriera culturale è dura. Bisogna iniziare con piccoli passi: assumere un venditore bravo, delegare la parte fiscale e di controllo di gestione a un commercialista specializzato e non a quello classico vecchio stampo di paese, implementare procedure, almeno in forma basica, per svincolare il titolare dall’operatività quotidiana.
Siamo lontani dal “management team” all’americana, mi rendo contro perfettamente, ma almeno non costringere il povero imprenditore a spegnere incendi 24 ore su 24.
Se l’azienda “non può fare a meno di te” neanche per un giorno, la “scalabilità” è un sogno.Margini alti, flussi di cassa robusti:
È la parte più difficile, visto che molte PMI combattono con margini risicati.
Occorre rivedere i prezzi (spesso troppo bassi), magari specializzarsi su servizi premium.
E poi controllare i costi con cura, perché un euro risparmiato è margine guadagnato.
Personalmente, ho visto aziende piccole rinascere dopo aver tagliato il superfluo e alzato i prezzi, scoprendo che i clienti disposti a pagare c’erano, purché la qualità fosse al top.
E occhio alle scorte e ai crediti: la gestione del flusso di cassa, in Italia, è una guerra quotidiana, specie se i clienti pagano a 60, 90 o 120 giorni. Le banche non fanno sconti, e se finisce il cash, si chiude baracca. Quindi serve una gestione rigida.Marketing serio, niente vanity metrics:
Anche se sei un negozio di quartiere, la tua pagina Facebook (o Instagram) può essere uno strumento di fidelizzazione, ma deve portare vendite o almeno clienti in negozio, non solo like della cugina.
Certo, non possiamo pretendere di fare 10.000 vendite online se vendiamo borse fatte a mano e non abbiamo mai inviato una newsletter.
Ma partiamo con un funnel semplice: presentiamo la storia del prodotto, i vantaggi, le testimonianze dei clienti soddisfatti e un chiaro invito all’acquisto. Monitoriamo i risultati, chiediamo ai nuovi clienti dove ci hanno scoperti. È marketing “reale”, non uno show di vanità.Automazione e dati:
Per una piccola azienda, potrebbe bastare un software gestionale basilare, un CRM semplice che però connettesse dati di marketing con l’amministrazione. Noi usiamo Keap perché siamo molto focalizzati sulle automazioni e soprattutto perché può essere fatto parlare con i gestionali amministrativi o di “gestione sala” di vari tipi di business.
L’importante è passare dalla nebbia totale (“Mi sa che guadagniamo, vediamo a fine anno”) a una piccola luce:
quanti lead ho avuto, quanti preventivi ho emesso, quanti si sono convertiti in vendita, qual è la nostra marginalità mese per mese.
Si possono fare miracoli scoprendo, ad esempio, che il prodotto X rende 5 volte più del prodotto Y, e poi investire lì. In Italia, la tecnologia spesso viene vista con sospetto: “Ma tanto io ho tutto in testa!”. Ecco, un giorno avrai un’emicrania e non ricorderai più nulla, e l’azienda crolla. Meglio mettere ordine e tracciare.
5. Il “familismo aziendale” e le sue conseguenze
M: Un punto che mi interessa molto è l’impatto di questa cultura familiare che in Italia è così forte. Tu stesso hai menzionato il caso tipico del cugino incapace messo a fare il venditore. Quali conseguenze concrete vedi nelle aziende?
F: Guarda, le conseguenze sono tante, ma la principale è la mancanza di professionalità. Se uno studia management, marketing, vendite da anni e ha un certo bagaglio di esperienze, potrà impostare sistemi e procedure serie.
Se però – per ragioni di “fiducia” – prendo mio cugino che non ha competenze, l’azienda resta legata a metodi improvvisati, e non c’è confronto interno.
Quando poi arriva un consulente esterno e propone di cambiare alcune cose, la famiglia si sente minacciata. Quindi si blocca tutto.
Un altro effetto è la difficoltà a estendere la governance: magari ci sarebbe un investitore interessato a mettere fondi e competenze, ma in famiglia scatta il panico:
“Chi è questo estraneo che ci toglie il controllo?”. Di nuovo, si resta piccoli.
Sono dinamiche molto radicate, e infatti ci sono casi in cui persino dopo la morte del fondatore, i figli litigano e fanno a pezzi l’impresa. Sembra una soap opera, ma è la realtà di molte imprese artigiane e commerciali.
Ecco perché da anni ripeto: “Capisco il senso di responsabilità verso la famiglia, ma la tua azienda non è l’albero genealogico”. Se vuoi crescere, a volte serve saper dire no ai parenti e agli amici – lo so, è dura. Sono errori che ho fatto anche io in passato.
6. Le statistiche di fallimento e la sindrome da “guru”
M: Sappiamo che il tasso di fallimento delle imprese in Italia è alto. Perché succede questo, secondo te?
F: Le ragioni sono varie: mancanza di capitali, mentalità chiusa, burocrazia asfissiante… e aggiungiamoci il mito dei “guru”.
Mi spiego: in momenti di difficoltà, molti imprenditori si aggrappano a soluzioni miracolose perché non hanno una vera cultura d’impresa.
Così abboccano al venditore di fumo che promette ricette istantanee. E finiscono per spendere soldi in consulenze inutili o in campagne marketing a casaccio, senza risolvere i veri problemi strutturali.
Ho visto aziende sperperare migliaia di euro in pubblicità, convinte che bastasse comparire su Facebook per generare clienti. Poi si accorgono che i clienti non arrivano, falliscono o spengono le campagne e danno la colpa al “marketing che non funziona”.
Ma, come dicevo, se non sai costruire un’offerta solida, se non sai gestire i flussi di cassa, se hai delegato tutto a un cugino incompetente, puoi anche lanciare la miglior campagna del mondo, ma non durerai.
Quindi la “sindrome da guru” è un male grave: bisogna studiare, farsi affiancare da professionisti seri e, soprattutto, avere un approccio di test e misurazione dei risultati.
7. Indicazioni pratiche per “migliorare” il proprio business (non renderlo perfetto, ma quasi)
M: D’accordo, veniamo alla parte più costruttiva. Supponiamo che io sia un piccolo imprenditore che vuole passare dal disastro organizzativo a qualcosa di più vicino all’idea di “business di successo”. Quali passi consigli?
F: Ti rispondo in modalità “lista di controllo”, anche se qualcosa l’ho già accennato:
Fai chiarezza sugli obiettivi e pianifica
Butta giù un mini-piano a un anno, tre anni, cinque anni. Pochi punti, ma chiari: dove vuoi arrivare col fatturato, quante persone puoi/devi assumere, che profitti intendi raggiungere. Avere una direzione evita di correre come criceti sulla ruota. E se poi devi modificare, si modifica, ma almeno hai una mappa.
Analizza e cura il rapporto col cliente
Domandati: “Perché un cliente dovrebbe comprare da me e non da un concorrente?” Se la risposta è “perché sono più economico”, è una strada rischiosa.
Meglio puntare sull’esperienza d’acquisto e sulla differenziazione. Chiedi feedback sistematici, offri assistenza eccezionale, trasforma i clienti in fan. Ripeti la frase di Kotler su “la miglior pubblicità è il cliente soddisfatto” come un mantra.Scegli una specializzazione chiara
Spietata, se vuoi. Riduci l’offerta se serve, ma diventa “unico” in qualcosa. Un artigiano che fa borse? Perfetto, diventa l’esperto di borse personalizzate con materiali italiani pregiati.
Un ristorantino? Diventa il tempio della cucina tipica di una determinata tradizione rivisitata o di un unico prodotto focalizzato. Pensa a “La Piadineria” che fa solo piadine romagnole o “All’antico Vinaio” che fa solo schiacciate fiorentine o a Spontini che fa solo pizza al trancio alta e soffice alla milanese ecc…
Smettila con quelle cazzo di “hamburgherie gourmet” che sei arrivato con 15 anni di ritardo e ce n’è una a ogni angolo compreso McDonald’s e Burger King e pensa alla nostra tradizione. Sono quelle le vere catene che stanno esplodendo. (mi scuso per il “gourmet”, avevo promesso che non avrei più detto parolacce).
Fai in modo che quando il cliente pensa a “quell’esperienza” o “quel prodotto di nicchia”, si ricordi di te.Sfrutta il digitale con obiettivi precisi
Se apri un canale social, definisci: “Voglio 30 contatti in più al mese, voglio vendere 10 prodotti in più a settimana”. E poi misura. Se non funziona, cambia strategia.
Può essere utile curare l’e-mail marketing, un piccolo CRM per gestire contatti e curare maniacalmente le campagne interne, un sito ben indicizzato, magari un occhio agli sviluppi dell’AI.
A volte bastano poche cose fatte davvero bene, non serve un “mega funnel” all’americana. E occhio ai guru, come ho detto. In realtà i funnel servono. Quello che non serve sono i “Fuffannel” che seguono l’ultima moda inutile che fa leva sulla tua voglia di aver trovato “la bacchetta magica”.Metti in ordine i conti e il flusso di cassa
Se non sai quanti soldi ti restano in tasca ogni mese, è un problema. Anche se sei una microimpresa, tieni la contabilità aggiornata (internamente o con un commercialista bravo).
Conosci i margini di ogni prodotto/servizio, capisci dove guadagni e dove stai perdendo tempo e soldi. Se un prodotto non rende, valuta se toglierlo o rilanciarlo in altra forma.Inizia a delegare dove serve
Smettete di pensare che nessuno possa essere bravo come voi. Troverete persone più competenti, basta cercare o formarne una internamente.
Se vi sentite in colpa a lasciare fuori il parente, trovategli un ruolo coerente con le sue capacità, senza dare ruoli di comando a chi non è all’altezza.
E soprattutto, date fiducia ai professionisti (gestione marketing, vendite, aspetti fiscali…). Uno dei problemi tipici è l’imprenditore “accentratore” che si lamenta di lavorare 14 ore al giorno, ma poi non lascia nulla agli altri.Nessuna scorciatoia: test, perseveranza e aggiustamenti continui
Se vendi un nuovo servizio e nessuno lo vuole, capisci perché: è la presentazione? Il prezzo? Non c’è domanda?
Una volta scoperto l’intoppo, correggi e riprova. “La differenza tra chi vince e chi fallisce è la capacità di rialzarsi”, come diceva Jobs.
Se suona come cliché, è perché è la verità: l’imprenditore che riesce, spesso, è solo quello che non ha mai mollato.
Hai bisogno di aiuto con il marketing della tua azienda?
8. L’elemento emotivo e la mentalità del “preferisco restare piccolo”
M: Hai parlato di mentalità. Come si affronta il problema di chi dice: “Ma io preferisco restare piccolo e familiare, così controllo tutto e non ho stress da grandi numeri”?
F: Beh, la scelta è legittima. Non tutti devono diventare giganti. Se un imprenditore vuole restare artigiano, guadagnare il giusto, lavorare in tranquillità, è un obiettivo del tutto rispettabile.
Ma attenzione: a volte ci si nasconde dietro questa scusa per paura o mancanza di strumenti. Se davvero decidi di restare “piccolo”, allora fallo bene: gestisci i conti, metti i processi in ordine, forma i tuoi familiari a dovere, così da non dipendere sempre da te.
Avere un’attività piccola ma redditizia e ben organizzata è molto meglio di essere piccoli, incasinati e sempre in ansia. Più che la dimensione, conta la redditività e la qualità della vita che vuoi.
Se mantieni i parametri di un “business di successo” in piccolo, ben venga.
Però non venire a dirmi che non cresci perché “il mercato è cattivo” e poi scopro che non fai nulla per cambiare le cose. Concediamoci un po’ di sana autoironia: se non vuoi crescere, nessun problema, ma non lamentarti che i conti non tornano o che i competitors ti schiacciano.
9. Esempi pratici per settori comuni in Italia
M: Hai citato diversi ambiti generici. Ti chiederei alcuni cenni specifici per settori tipicamente italiani: ristorazione, moda, artigianato e manifattura. Qualche esempio concreto di “applicazione” di questi principi?
F: Volentieri, anche se ogni realtà è diversa:
Ristorazione (piccoli ristoranti, trattorie)
Molti temono la concorrenza spietata. Un modo per distinguersi è puntare su un menù limitato, iper-specializzato, usando solo ingredienti di alta qualità e magari raccontandone la storia. Offrire un’esperienza, non solo un piatto.
E curare la presenza digitale: foto accattivanti, recensioni raccolte in modo sistematico, piccole campagne su Google per chi cerca “miglior ristorante di…”. Tutto con un budget contenuto. E soprattutto, fidelizzare i clienti abituali con degustazioni, menù speciali, serate a tema.
Moda e artigianato (piccoli laboratori sartoriali, borse, ceramiche, ecc.)
Qui l’artigianato italiano ha un vantaggio di reputazione mondiale. Il problema è farsi trovare. Aprire un e-commerce di nicchia, partecipare a fiere internazionali, sfruttare Instagram per mostrare il “dietro le quinte” della lavorazione: ecco come raccontare il proprio valore.
Non è questione di vendere a milioni di persone, ma trovare la micro-nicchia (anche estera) che ama la manifattura italiana. E poi, prezzi in linea con il valore. Troppo spesso vedo artigiani vendere a prezzi stracciati: ma se il tuo prodotto è unico, fallo pagare il giusto.
Manifattura più ampia (piccole PMI industriali)
Spesso fanno da terzisti per aziende più grandi. Il rischio è restare schiacciati da clienti che pagano tardi o tirano sui prezzi. Lì, magari serve differenziare i clienti, puntare su mercati esteri, o sviluppare un prodotto proprio in parallelo.
E investire in macchinari e processi, se possibile, per guadagnare efficienza. A volte la “crescita” viene da un miglioramento della produttività interna che permette margini più alti.
Settore servizi (fioristi, parrucchieri, piccoli studi professionali)
Puoi creare pacchetti o abbonamenti: il parrucchiere che vende un pacchetto di 10 sedute con un vantaggio di prezzo e un servizio VIP, ad esempio.
O il fiorista che offre un abbonamento settimanale di composizioni per aziende o ristoranti, portando fiori freschi in modo ricorrente. E magari si fa pagare in anticipo. Ecco un modo per generare flussi ricorrenti, anche in un settore tradizionale.
Il filo conduttore in tutti questi esempi è sempre lo stesso:
specializzare,
differenziare,
comunicare bene e
cercare di costruire entrate ricorrenti dove possibile.
E, ripeto,
studiare i numeri e
delegare in modo intelligente.
Sì, suona ripetitivo, ma è la base: marketing, conti, delega. Sembra semplice? Lo è, in teoria. Nella pratica, ci vuole costanza e superare la nostra barriera culturale.
10. Conclusione: Non esiste il business perfetto, ma si può migliorare
M: Siamo quasi in chiusura. Se dovessi riassumere in poche parole il messaggio chiave che vuoi dare ai piccoli imprenditori italiani che sognano il “business perfetto”, cosa diresti?
F: Direi: non c’è il business perfetto, è un mito, una suggestione. Ma c’è il “business migliore di ieri”, quello che diventa più stabile, più redditizio e meno dipendente da te mano a mano che introduci i giusti accorgimenti.
Se è vero che colossi come Amazon o Netflix hanno 300 strategie che un artigiano o un negoziante non può riprodurre, è altrettanto vero che una PMI può adottare i principi-chiave in scala ridotta. Non serve diventare miliardari, ma rendere la propria impresa sana, scalabile quanto basta e soddisfacente in termini di qualità della vita.
Ci sono tanti ostacoli in Italia, ma il primo vero ostacolo è spesso il nostro atteggiamento: la paura di delegare, la sfiducia verso gli estranei, l’idea che i guru abbiano una formula facile. Non è così. Come ho detto, serve studio, analisi dei dati, strategia e costanza.
Oltre, ovviamente, a una bella dose di realismo. Creare un’azienda che “funziona mentre dormi” è un miraggio? Forse sì. Però creare un’azienda che genera profitti anche quando tu vai in vacanza qualche giorno, grazie a un team minimamente organizzato, è già più realistico. Ecco, puntiamo a questo.
M: Perfetto, Frank. Grazie di cuore per questa lunga chiacchierata. Direi che abbiamo raccolto un bel po’ di spunti e, soprattutto, riportato sulla terra le idee esotiche del “business perfetto”. Ti ringrazio a nome di tutti i lettori che, magari, si stanno ritrovando nella descrizione della tipica impresa italiana. Un’ultima battuta?
F: Sì:
“Non lamentatevi che il mercato è difficile se non fate niente per distinguervi, per automatizzare, per delegare. Provateci! E ricordatelo: un’azienda non cresce con le scuse, ma con la volontà di applicare i principi che funzionano davvero”.
M: Fantastico. Grazie, Frank. E speriamo che questa intervista possa aiutare chiunque gestisca un’impresa o voglia avviarne una, a capire come avvicinarsi all’idea di “business eccellente”, pur sapendo che perfetto non lo sarà mai. Un saluto a tutti!
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